La grande storiella di Candide

Per qualcuno parlare di genocidio è sbagliato, per altri, come l’autore del libro: “La radio e il machete” Fonju Ndemesah Fausta, è perentorio definire quello che è avvenuto in Rwanda, in cento giorni, non tanto un genocidio mantenendo così una definizione generica, quanto un genocidio politico.

Questa breve introduzione non è esaustiva: vuol solo dare alcune linee di contesto per chi non conosce nulla o poco di quanto avvenuto nel 1994, al fine di poter comprendere al meglio le parole della grande storiella.

Nel XV secolo il Rwanda era suddiviso in tre clan (ubwoko): quelli di origine autoctona e antica come i TWA, e i due nuovi clan formatosi successivamente, che rappresentavano la fetta più grande della demografia del territorio: i TUTSI e gli HUTU, quest’ultimi in netta maggioranza.

Era coloniale  

Con la Conferenza di Berlino del 1884 inizia il periodo coloniale che prevede l’introduzione del territorio nella parte dell’Africa Orientale Tedesca, dove la Germania si impegna a supportare la monarchia. Le cose cambiano quando, nel 1916, è il Belgio a prendere il controllo coloniale del territorio del Rwanda e del Burundi. Il potere belga partecipa attivamente alla politica interna apportando una maggior centralizzazione del potere e il finanziamento di importanti progetti che vanno dall’istruzione, alla salute, passando per i lavori pubblici. Fino in quel momento, prima la Germania e poi il Belgio avevano appoggiato i Tutsi, vale a dire la parte della popolazione che secondo loro aveva determinate caratteristiche fisiche e sociali: con Tutsi si intendeva, solitamente, quella parte del popolo più benestante, che ricopriva alcuni ruoli importanti nella società. La tradizione orale narra come, nel tempo, sia emersa un’aristocrazia feudale dove i tutsi, allevatori di bestiame, abbiano iniziato ad occupare i posti più importanti della struttura sociale e politica mentre gli hutu, agricoltori, ricoprissero un ruolo a loro subordinato.

Le carte di identità

L’inizio di un genocidio che si consumerà anni dopo è da considerarsi nel 1935 con l’introduzione delle carte di identità dell’etnia di riferimento. Fino ad allora, anche gli hutu puntavano a diventare dei “tutsi onorari” perché, come spiegato precedentemente, questi rappresentavano più una classe sociale che un’etnia a parte. L’ascesa sociale diventa quindi impossibile perché sulle carte di identità viene assegnata un’appartenenza non più modificabile: o sei Tutsi o sei Hutu. E così, nel 1959, si consuma la prima rivoluzione rwandese: le classi sociali più basse, quindi gli hutu, si ribellano contro i tutsi, costringendo migliaia di loro a scappare dal Paese. Un’imposizione sociale scelta dalla politica coloniale belga inizia a mietere vittime tra gli abitanti della colonia. È l’inizio di una lunga lotta fratricida, che ha la colpa di non aver mai alzato lo sguardo per comprendere le vere cause dell’astio che si era creato tra e Hutu e Tutsi.

Cambio di rotta della colonia belga e un nuovo Presidente.

I belgi allora cambiano subito casacca. Improvvisamente si riscoprono “pro-hutu” e decidono di appoggiare gli Hutu ormai saliti al potere dopo la rivolta. Non solo, propongono il referendum per abolire la monarchia e in piena fase di decolonizzazione, nel 1962, il Rwanda si separa dal Burundi e diventa uno stato indipendente, con un conflitto interno disastroso tra Hutu e Tutsi.

Il 5 luglio 1973, con un colpo di stato, si insedia un nuovo Presidente Hutu: Juvenal Habyarimana. La popolazione rwandese cresce vertiginosamente. Inizia così un periodo di apparente stallo. Poi arrivano gli anni Novanta e con loro cambierà tutto.

Prima la guerra civile, poi lo sterminio

Il Fronte patriottico rwandano RPF, un gruppo composto da circa 500.000 rifugiati Tutsi, scappati nei territori limitrofi, principalmente Congo e Uganda, dopo esercitazioni e un assemblamento interno, invadono il Rwanda settentrionale: nonostante i divieti, e nonostante ci siano ora gli Hutu al potere, vogliono tornare a vivere nel loro Paese. Da lì, ha inizio una prima guerra civile che durerà fino agli accordi Arusha del 1993. Quest’ultimi avrebbero dovuto prevedere un cessate il fuoco; la formazione di un governo maggiormente rappresentativa delle varie fazioni politiche; l’ingresso del FPR nell’esercito nazionale e una facilitazione del ritorno dei rifugiati Tutsi esiliati negli anni precedenti.  

Questi sarebbero stati i piani firmati dal Presidente del Rwanda, che avrebbero dovuto inaugurare una nuova fase di stabilità nel Paese. Il presidente Juvénal Habyarimana stava cercando di implementare gli Accordi di Arusha, tramite una serie di incontri, con altre potenze. Era da uno di questi incontri che stava tornando quando il 6 aprile 1994 morì insieme al collega, il Presidente del Burundi, in un incidente aereo.

 Gli hutu non credono nella dinamica dell’incidente: accusano i Tutsi della morte del proprio Presidente. In realtà, solo nel 2007, una commissione indipendente, guidata dall’ allora giudice della Corte Africana per i diritti dell’uomo, accerterà che l’attentato fosse stato programmato ed eseguito da alti ufficiali dell’esercito e da alcuni membri della stessa famiglia presidenziale, evidentemente in disaccordo con questa nuova politica di apertura nei confronti dei Tutsi. Ma questo si saprà molto dopo. All’alba del 7 aprile 1994 ha inizio il genocidio politico. In circa poco più di tre mesi, omicidi, stupri di massa e mutilazioni diventano l’ordine del giorno contro i Tutsi e gli Hutu moderati: si parla di migliaia di vittime al giorno. Secondo alcuni, essendo la cifra stimata di almeno 800.000 vittime, anche se in molti ritengono che il dato si aggiri più verosimilmente verso il milione, significa la morte di circa 8000 persone al giorno.

Quello che in pochi sanno, è che anche il Burundi era diventato scenario del genocidio: la differenza è che i Tutsi, nel 1994, erano al potere; ma rimanendo comunque una minoranza, hanno subito persecuzioni, torture e sono cadute vittime degli stermini di massa.

La grande storiella che stiamo per raccontare è quella di Candide, una ragazza appartenente ai tutsi, di origini rwnadesi, che ha vissuto in Burundi, e che si è salvata dallo sterminio.

La grande storiella di Candide

Mi chiamo Candide e questa è la mia grande storiella. Voglio raccontare come sono cresciuta: la mia storia. Io sono nata in Burundi ma le mie origini sono rwandesi. I miei genitori erano fuggiti nel 1959 per andare in Burundi. Come profuga, sono cresciuta e ho vissuto lì. A un certo punto ho avuto la cittadinanza burundese. Prima che succedesse la guerra in Rwanda del 1994, mio padre ha ottenuto un lavoro in Belgio: allora tutta la famiglia si è spostata in Europa. E sempre prima del 1994, eravamo soliti tornare sia in Rwanda e sia in Burundi per fare visita al resto della famiglia. Anche se i miei zii, già al tempo, non vivevano una vita tranquilla, mai avrebbero pensato che sarebbe potuto succedere un giorno quello che è poi accaduto.

1993

Nell’agosto del 1993 ero a Kigali, in Rwanda. Il vero e proprio genocidio non era ancora iniziato, ma avevano incominciato a fare delle uccisioni selettive: prelevavano i tutsi che avevano studiato, perché erano i primi che volevano eliminare. Quell’estate, mentre ero lì, vengono ammazzati tre dei miei cugini. Visto che anche io facevo parte dei tutsi, per paura di essere presa, ero fuggita verso il Congo: non potevo infatti ritornare verso il Burundi percorrendo lo stesso tragitto per paura di essere anche io prelevata. Volevo allontanarmi. Con un mio cugino, siamo andati in macchina e abbiamo cercato di arrivare in Burundi passando per il Congo.  C’era già molta tensione. Sapevo che saremmo dovuti passare nei territori degli Hutu, questo ovviamente era sempre un rischio per noi Tutsi: mentre massacravano i Tutsi in Rwanda, anche in Congo gli Hutu avevano iniziato a dare la caccia ai Tutsi. Comunque siamo riusciti senza troppe difficoltà a tornare nel Burundi.

L’incidente

Nel 1994, quando vengono uccisi i Presidenti del Rwanda e del Burundi, di ritorno dall’assemblea dove era stato deliberato il rientro dei Tutsi scappati negli altri territori africani limitrofi, inizia il vero genocidio. Era il 6 aprile del 1994. 

Io fino a quel momento mi sentivo tranquilla proprio perché pensavo che finalmente le cose stavano andando per il meglio, dopo aver saputo che i due presidenti stavano prendendo questi accordi. Dopo l’incidente tutto precipita. Gli Hutu, che erano al potere, essendo stato ammazzato il proprio Presidente, iniziano ad uccidere. Inizia un piano di uccisione di tutti i Tutsi. In Burundi, nonostante i Tutsi fossero al potere, rappresentavano comunque una minoranza, e gli Hutu iniziano a rivoltarsi e colgono l’occasione per iniziare anche loro il massacro dei Tutsi. Inizia così la guerra totale.

Io, nel 1994, ero lì

Io, credendo che le cose stessero migliorando, mi trovavo in vacanza lì. I miei genitori, fortunatamente, erano rimasti in Belgio. Sarei dovuta rimanere in vacanza fino a settembre. Ovviamente non erano mancati, anche prima del genocidio, dei fatti gravi di discriminazione e di morte violentissima.

Mi ricordo ancora un fatto avvenuto tra la fine del ‘93 e l’inizio del ’94, quando hanno bruciato 80 studenti tutsi, nella scuola dove insegnava mio fratello, in un liceo. Avevano capito che c’era la possibilità che i tutsi rientrassero. Li avevano bruciati vivi, buttando benzina dall’alto. Nella capitale, appena inizia a circolare la voce della morte del Presidente, nel ’94, vanno in un seminario e ammazzano tutti i Tutsi che erano lì. Io al tempo avevo circa 29 anni. Se fino in quel momento, essendoci i Tutsi al potere, mi sentivo tranquilla a fare rientro in Burundi per salutare parte della mia famiglia, ora capisco che questo non è più possibile. La situazione stava diventando simile a quella del Rwanda, dove non ci andavo più da un po’.  Le uniche volte in cui sono stata, negli anni prima del genocidio, ero sempre andata solo con autobus: per un tutsi era impossibile arrivare via aereo, ti bloccavano, perché non volevano che tornassimo. Ricordiamo che c’erano le carte di identità e le regole razziste.

Nonostante avessi la carta d’identità europea, io rimanevo una Tutsi.

Quindi nel periodo proprio del genocidio che va dall’aprile al luglio del 1994 ero in Burundi. Sicuramente la situazione era più sotto controllo perché al potere c’erano i Tutsi, ma comunque eravamo in piena guerra: mi ricordo cadaveri ovunque, si sparava dappertutto. Hanno ammazzato tante persone.

Gli hutu non andavano ad uccidere dove c’erano i militari, ma puntavano posti civili, come le scuole e sparavano da lontano. La paura comunque rimaneva per strada: non sapevi chi avresti incontrato. Vedendo allora che le cose si mettevano male, ho preso un autobus per andare verso l’Uganda sperando di poter ripartire da lì per l’Europa.

Insieme con mio cugino e l’altro fratello scappiamo verso l’Uganda. Da lì poi andiamo in Uganda, dove però non conoscevamo nessuno. Abbiamo preso un albergo, ma non si riusciva a partire. Gli aerei erano pieni e la precedenza veniva data a tutti gli europei che dovevano scappare e poi non c’erano tanti aerei, Air France per esempio non era più venuta. Erano pochissime, forse solo quattro le compagnie aeree che continuavano a portare avanti il servizio.

Trovare un posto era difficile: nonostante io avessi un documento europeo, e quindi fossi a tutti gli effetti europea, non riuscivo comunque a partire: ero nera. Il colore della mia pelle mi faceva scavalcare da tutti i bianchi che volevano lasciare prima il Paese.

A Bujumpura ammazzano tanti tutsi. La capitale rimaneva leggermente protetta, il peggio avveniva nei paesini. Ma comunque anche nelle grandi città i militari non riuscivano ad essere ovunque. Potevi essere ucciso da un momento all’altro. Venivano tanto colpite le scuole, per ammazzare i ragazzi che studiavano. Ma potevi finire nel mirino anche semplicemente per strada: ogni volta che si doveva prendere la macchina dovevi pregare, non sapevi come poteva andare a finire una volta messo piede fuori casa. Ti tagliavano, seviziavano, era un calvario.

Il viaggio

Noi dovevamo scappare. Con mio fratello, con la macchina, siamo arrivati in una provincia che permetteva di entrare in Tanzania, per poi arrivare in Uganda. Ed è proprio lì che ci hanno fermato. Noi purtroppo non potevamo dire di essere Hutu: la forma dei nostri nasi faceva ben vedere che appartenevamo ai Tutsi. E poi c’erano le carte di identità. Mio fratello diceva che dovevo pregare: o ci tagliano o ci lasciano. Hanno iniziato a chiederci soldi. Poi hanno iniziato a farci domande, abbiamo mentito dicendo che volevamo solo fare un giro, che non stavamo scappando. Loro facevano domande, e ci hanno detto che dovevano ucciderci. Mentre ce lo dicevano, avevano il machete ancora pieno di sangue. Avevano appena finito il loro lavoro. Io inizio a piangere e mio fratello invece inizia a contrattare, dice che li avrebbe dato dei soldi. Intanto avevo visto tanti cadaveri.

Io ero convinta che quel giorno ci avrebbero ammazzati. E mentre mio fratello aveva preso tempo, parlando e scherzando, sono arrivati i militari Tutsi che ci hanno salvato. Siamo stati con loro per tre giorni e poi ci hanno accompagnato al confine. Lì eravamo salvi: siamo arrivati in Uganda. A Kampala siamo rimasti due mesi e poi siamo tornati. Ma ci sono tanti, tanti morti. Hanno ammazzato mia zia, mio fratello e tantissimi cugini. Io avevo sette zii, dopo il genocidio me n’è rimasto solo uno.

Belgio

In Belgio studiavo lettere, anche se io e mio fratello avevamo già iniziato a lavorare a un progetto insieme: progettavamo di costruire una scuola in Burundi. Con la guerra è cambiato tutto. Poi il caso mi ha fatto arrivare in Italia e iniziare, invece, gli studi di infermieristica.  Ci avevo provato anche in Belgio, ma poi sono riuscita a passare il test in Italia. Così dal Burundi, passando per il Belgio, sono poi venuta in Italia, in Piemonte, in un paesino piccolo dal nome Castiglione Torinese, era circa il 1999.

Io le cose le prendo così come vengono perché nella vita la strada veramente è già tracciata secondo me. Quando sono arrivata qui, volevo fare l’università per diventare infermiera, ma il mio diploma non me lo permetteva. Allora ho fatto la maturità, con cinque anni in uno, e mi sono iscritta al test. Ho fatto per 25 anni l’infermiera al Cottolengo a Torino.

E poi, con il mio diploma, sono riuscita a trovare posto come insegnante. Facevo la notte e quando mi hanno chiamata alle 8 del mattino e mi hanno detto che c’era posto per me come insegnante: mi sono subito dimessa e da allora sono insegnante!

Il finale della mia grande storiella

Adesso sto aspettando che mio figlio finisca l’università, per poi tornare in Africa. Voglio ritornare a casa, nel Burundi. Il finale di questa grande storiella è tutta questa strada che ho fatto. Ho una tristezza enorme perché comunque mi manca un pezzo della vita ma nella tristezza, ho trovato un insegnamento: vivere con ciò che hai. La storia mi ha insegnato che mi devo ricordare ogni mattina che comunque sia, devo essere contenta di ciò che ho. Se non godo quello che ho oggi i tempi scappano, passano e io passo insieme a loro.

Io vivo, io adesso vivo! Devo vivere la vita: non mi devo perdere nelle cose inutili. Devo godermi la vita. A giugno devo partire per l’Africa: quanti soldi ho? Un po’ di soldi, con quello che ho, vado e vivo! So che non devo vivere al di sopra di quei soldi, ma con quei soldi devo sentirmi viva e libera.  

Pubblicato da Grandi Storielle

La tua grande storiella conta. Qui raccogliamo storie di personali normali, ma per questo non meno importanti di quelle delle persone note. Si vuole ritornare ad interrogare il sociale, quello vero, tramite le loro storie, anzi, le loro grandi storielle.

Lascia un commento