Mi chiamo Haval e questa è la mia grande storiella. Sono nato il 23 marzo 1983, cioè il terzo giorno del Capodanno curdo. Sono nato durante la guerra tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. Quindi, quando la guerra è finita, avevo cinque anni. Non posso dire di ricordare molto bene quel periodo, lo ricordo come si ricordano i sogni. Quando Saddam Hussein ha deciso di attaccare il Kuwait, avevo 7 anni e naturalmente non ricordo molto, ma so che la gente era preoccupata e tutti parlavano del fatto che l’Iraq si sarebbe potuto ritrovare in una situazione molto brutta. Ricordo che dopo otto mesi dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam, gli americani hanno bombardarono Erbil, perché Saddam si nascondeva qui, ma io non ne avevo idea. Eravamo per strada, gli americani hanno iniziato ad attaccare Erbil, la mia città, perché volevano bombardare alcune basi militari. Ricordo che stavamo giocando a calcio e poi abbiamo iniziato a correre.
Mio zio, che già al tempo aveva delle disabilità, vendeva sigarette e altre cose per strada. Una volta che l’ho accompagnato nel chiosco del suo piccolo negozio, ricordo di aver sentito le sirene. Chi stava guidando per strada ha fermato la macchina e tutti hanno iniziato a correre verso la stazione degli autobus. Tutte le stazioni di servizio sono state prese d’assalto dalla popolazione, perché sapevamo che gli americani non bombardavano gli spazi pubblici, come le stazioni di servizio o le stazioni degli autobus.
Quando guardai il cielo, vidi tre missili e mentre li guardavo mi sembrava stessero venendo da me. Così, ho lasciato mio zio e sono scappato con tutta la gente e la folla che andava alla stazione degli autobus. Ma non avevo idea del perché stesse accadendo tutto questo. Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti bombardavano tutto l’Iraq, come conseguenza dell’invasione del Kuweit da parte di Saddam Hussein, i curdi colsero questa opportunità per fare una vera e propria rivoluzione contro Saddam. Bisogna ricordarsi che Saddam aveva ucciso circa 182 mila curdi in sei mesi, un vero e proprio genocidio. I curdi videro questa opportunità e sperarono che Saddam venisse così cacciato dal Kurdistan, così tutti fecero la rivoluzione. Me lo ricordo molto bene, avevo circa 8 anni nel marzo del 1991. Allora, donne, bambini, uomini presero d’assalto le stazione dell’esercito o della polizia irachena. Molti soldati iracheni morirono perché i curdi si vendicarono di tutte le morti che loro avevano afflitto, seguendo gli ordini di Saddam. Effettivamente, il popolo curdo riuscì a liberare il Kurdistan da Saddam.
Tuttavia, George Bush padre decise inaspettatamente, dopo la fine della prima guerra del golfo, di non cambiare il sistema politico iracheno e decise di non rimuovere Saddam dal potere. Pertanto, 4 o 5 milioni di curdi lasciarono il Kudistan e scapparono in Turchia e in Iran, per paura delle ritorsioni che il regime di Saddam avrebbe messo in atto per vendicarsi della rivoluzione curda. Io e la mia famiglia andammo in Iran, quindi l’esodo avvenne di mattina presto, alle 6 o alle 7 del mattino. Qualcuno ha bussato alla porta, era il nostro vicino di casa che si chiamava Alì, e ci ha detto: “Cosa state facendo? State ancora dormendo?”. Mio padre aveva cinque figli e il mio fratellino aveva solo sei mesi. Lì vicino c’era una stazione degli autobus che apparteneva al governo, il nostro vicino Ali rubò un autobus, tanto non c’era più il controllo di Saddam. Rubò un autobus e lo portò nel quartiere dicendo: “Salite su quell’autobus”. Così siamo saliti sull’autobus. La mia famiglia era originaria di Rawandus, a 70 km dal confine iraniano. Così l’autobus ci ha portato a Rawandus, dove ci siamo riuniti con la nostra famiglia. Abbiamo fatto bene a scappare. Dopo solo due giorni, ci hanno detto che Saddam era arrivato a 20 km da Erbil. Quando è arrivato a Erbil, tutti gli abitanti di Rawandus e di quella zona sono andati in Iran, così come la mia famiglia. Ma il viaggio non era molto facile. Si andava sui camion, se disponibili. Migliaia e migliaia di persone andavano a piedi, in trattore, in camion, in pick-up. Quindi, ogni volta che si vedeva un po’ di spazio, si saltava sul camion e si partiva. Siamo stati fortunati a trovare un grande camion e con la mia numerosa famiglia ci siamo saliti. Quando abbiamo raggiunto il confine, l’Iran per quattro giorni non ha potuto aprire la frontiera. Così, per quattro giorni siamo rimasti in montagna. Immagina che a marzo quelle montagne avevano ancora la neve, quindi faceva molto freddo. Non c’era cibo, la gente era malata e stava morendo. Ho visto vecchi morire e ricordo che a volte c’erano dei paracadute, forse dall’Europa o dall’Iran, che facevano arrivare del cibo, per poter sopravvivere.
Mio fratello aveva sei mesi e lo abbiamo quasi perso per la mancanza di latte e per il freddo. È stato molto difficile rimanere lì per quattro notti e siamo sempre stati uno accanto all’altro per stare più al caldo. Dopo quei quattro giorni, l’Iran decise di aprire le frontiere e costruì molti campi al confine. Così siamo entrati. Mia nonna era iraniana, quindi siamo stati fortunati ad avere dei parenti lì, dove abbiamo trovato un parente di mia madre. Tuttavia, la mia famiglia era molto numerosa ed è stato difficile trovare spazio per tutti noi. Ricordo che la prima volta hanno tolto mucche e pecore dalla stalla e ci hanno messo lì, l’hanno pulita un po’ e credo che ci siamo rimasti per una settimana. Siamo rimasti in Iran per tre mesi. Lì eravamo tutti rifugiati, non avevamo soldi, avevamo lasciato tutto a Erbil e non sapevamo quando saremmo potuti tornare: non c’era nulla di chiaro. Così, da bambino di otto anni, ricordo che durante questi tre mesi non siamo andati a scuola, quindi vendevo gomme, fiori e altri oggetti per strada. Quei tre mesi sono stati davvero difficili, ma durante questi tre mesi ci sono state diverse pressioni su Saddam, per cui in quello stesso anno, nel 1991, ha deciso di concedere l’autonomia al popolo curdo. Quindi tutti i curdi, compresa la mia famiglia, sono tornati a casa. Il Kurdistan era una regione molto povera, non avevamo il petrolio. Al tempo, i due maggiori partiti politici in Kurdistan, hanno creato un nuovo governo. Era il 1992, ma le condizioni di vita erano pessime. Non c’era stipendio, non c’era elettricità, ma la gente continuava a vivere lì. Anche se eravamo in cattive condizioni, riuscivamo a sopravvivere. Dopo due anni, i due partiti politici diedero inizio alla guerra civile in Kurdistan. Dopo questo fatto, mio padre decise di scappare e andare a Baghdad. Abbiamo venduto tutto a Erbil e siamo andati a Baghdad. Tuttavia, il denaro che avevamo ottenuto dalla vendita non era molto. Una volta a Baghdad, quei soldi furono sufficienti per comprare un piccolo appartamento. Siamo rimasti a Baghdad per tre anni. A scuola è stato molto difficile, perché non sapevo parlare l’arabo. Quando ho iniziato la scuola ero in sesta elementare e per me è stato terribile: tutti mi prendevano in giro, perché sembrava fossi sordo, non sapevo parlare l’arabo, perché in Kurdistan abbiamo un gruppo etnico completamente diverso e non siamo arabi. Comunque, in qualche modo, il primo anno è andato bene, non era bello ma andava bene. L’anno dopo ho imparato a parlare l’arabo e ho fatto nuove amicizie. Il terzo anno iniziò un’altra storia: Saddam arrestò mio padre. Allora, mio padre faceva il tassista e aveva un amico sciita, ma non sapeva che facesse anche parte di un partito politico proibito, (in quanto sciita mentre al potere c’erano i sunniti). Un giorno, mio padre tornò a casa e disse a mia madre di andare a trovare un suo amico, perché aveva fatto un’operazione chirurgica. Mia madre per fortuna non ci andò e mio padre che andò a trovarlo, vide che c’era troppa gente e solo lì capì che si trovava nel mezzo di una riunione clandestina del partito. Mio padre, da quella visita, non tornò. Non sapevamo cosa gli fosse successo e non sapevamo neanche dove vivesse questo suo amico. Immagina, cinque figli, la mia sorella più grande aveva 14 anni, io ero il secondo di 13 anni. Ci siamo messi tutti a piangere. Naturalmente non c’era il telefono, non c’era il fax. Non c’era niente. Il giorno dopo non è tornato, quindi non sapevamo dove andare, non avevamo parenti.
Il mio cugino più grande è venuto da Erbil e ci ha aiutato. Siamo andati in tutti gli ospedali di Baghdad, nelle stazioni di polizia, ovunque, ma lui non era da nessuna parte. Non sapevamo cosa gli fosse successo. Mio cugino aveva un amico che lavorava nei servizi di sicurezza si è deciso allora di chiedere aiuto lì. Uno degli ufficiali è venuto a casa nostra ci ha detto: “Non cercate vostro padre, perché è stato arrestato. Non cercatelo, non fate collegamenti, perché nessuno vi dirà dov’è finché non avranno finito le indagini”. Parte della famiglia rimase in Kurdistan, mentre io, mia madre e mio cugino tornammo a Baghdad, per farci trovare pronti a casa per quando sarebbe arrivato l’avviso su dove poter recuperare il cadavere di mio padre. Quattro mesi e 20 giorni dopo è arrivato qualcuno. Stavamo aspettando che qualcuno venisse a dirci dove fosse il corpo di mio padre. Invece, ci dissero che potevamo andare al servizio di sicurezza generale per incontrarlo. Siamo andati lì, e io non ho riconosciuto mio padre. Era magro, solo pelle ed ossa. Era molto bianco, perché ci disse che non aveva visto la luce del sole per tutti quei mesi. E poi ci ha raccontato tutta la storia. Ora, bisognava pensare al passo successivo: cosa faremo? Chi ti crederà? Ovviamente nessuno. C’era una sola buona notizia: nonostante le torture, non aveva mai confessato quello che volevano loro, ma aveva sempre detto la verità, che lui quel giorno passava di lì, per caso. Ci hanno detto il giorno del processo, così l’amico di mio cugino ha trovato per noi il nome del giudice. Abbiamo fatto un accordo con lui, corrompendolo per 3 milioni di dinari iracheni. Una cifra assurda per noi. Per farlo, abbiamo venduto il taxi di mio padre e il nostro appartamento, ma così arrivavamo solo a 1,2 milioni.. Ci servivano ancora più di 1,8 milioni di dinari e mio cugino ci disse che dovevamo andare a Erbil. Prima di raccontare questo, devo spiegare il problema delle frontiere.
Immagine due confini: quello dell’Iraq e quello del Kurdistan. Nel mezzo c’è una zona che può essere attraversata solo tramite appositi mezzi dalle 6 del mattino alle 18 del pomeriggio. Quindi si può prendere un sharing taxi da Baghdad fino al confine iracheno, e poi si scende dal taxi per salire su camion o pick-up. Questi ti portano al confine con il Kurdistan, perché le auto non sono autorizzate a passare tra i due confini. Così, mio cugino mi ha detto che dovevo andare a Erbil di persona a prendere i soldi da un nostro parente molto ricco. Dovevo andare a prendere questa enorme quantità di denaro e portarla a Baghdad. Io avevo solo 13 anni. Partii comunque ma arrivai alla frontiera alle 18:20. Era tutto chiuso e la zona pericolosa. Non sapevo cosa fare, non avevo soldi per tornare indietro. Mi sono accasciato per terra e ho cominciato a piangere. C’era un soldato che mi disse: “Devi tornare indietro, non puoi restare al confine”. Ma io non sapevo dove andare. Mi sono poi accorto che c’erano due ragazzi, uno sui vent’anni e l’altro più grande, che parlavano tra loro in curdo. Ho iniziato ad ascoltarli. Erano nella mia stessa situazione. Presero una decisione folle, quella di attraversare la zona proibita, che separa i due confini, a piedi. Mi sono unito a loro. Così tutti e tre abbiamo deciso di camminare. Ad un certo punto, il ragazzo più giovane ha iniziato a correre, così gli ho chiesto perché lo stesse facendo. Mi ha detto che se fossimo rimasti lì, nella zona proibita, mentre faceva buio, avremmo rischiato la vita, perché gli iracheni avevano l’ordine di sparare a vista. Così, abbiamo corso. Io ero il più veloce, perché ero il più giovane. Ma il vecchio aveva la pancia, quindi per lui era più difficile. Quando si faceva buio, il ragazzo più giovane continuava a dirci: “WTF, per favore, vai più veloce”. Stavamo correndo in mezzo al nulla. Un pick-up è arrivato sulla strada principale, eravamo spaventati, perché pensavamo fosse un soldato, ma lui ci ha parlato in curdo e gli ha detto “Che diavolo state facendo? Salite subito!”.
Quando l’ha detto, siamo saliti in macchina e ci ha accompagnato al confine con il Kurdistan. Ho sempre pensato che quell’uomo fosse un angelo che Dio ci aveva mandato, un miracolo. Una volta arrivati, presi un taxi per andare a casa di mia zia, quella che ci avrebbe aiutato. Ci andai, era molto tardi. A quel tempo ero una persona timida ed ero molto timido a entrare, perché era tardi e non sapevo cosa fare. Mi sono seduto davanti alla porta e ho iniziato a piangere. Il marito di mia zia sentì, aprì la porta e non riusciva a crederci: come aveva fatto un bambino di tredici anni ad arrivare da solo fino a qui? Era una persona molto buona: mi portò dentro casa e mia zia pensò che fossi lì per dirle che mio padre, suo fratello, fosse morto, così iniziò a piangere. Ma io le dissi che non era morto e le spiegai tutta la situazione.
Mi portarono in cucina, mi diedero del cibo, dell’acqua e poi raccontai loro tutta la storia e che avevo bisogno di 1,8 milioni di dinari, una cifra molto alta. Il marito di mia zia mi disse: “Non preoccuparti, ti darò questi soldi”. Era ricco e ogni volta che la mia famiglia aveva bisogno di qualcosa, era pronto ad aiutarci. Ora abbiamo un altro problema. Come facciamo a mandare un bambino a Baghdad con questa somma di denaro?
Così, hanno parlato tra loro. Hanno parlato per ore. La gente aveva paura di andare a Baghdad con quei soldi, perché il trasferimento di denaro non era consentito. Hanno trovato una soluzione: convertire il denaro in dollari americani e poi farli mettere nelle mie mutande. Era rischioso, ma non controllavano i bambini. Così sono tornato a Baghdad e ho portato tutti i soldi. Abbiamo pagato il giudice che ha rilasciato mio padre. Era il 1996, settembre o ottobre. Mio padre è riuscito a comprare un’altra macchina, un taxi per lavorare, e poi abbiamo affittato un altro appartamento. Dopo solo tre mesi, qualcuno bussò alla nostra porta. Mio padre aprì e ricordo che disse: “Andiamo, andiamo”. Cosa stava di nuovo succedendo? Il tribunale superiore aveva scoperto che avevamo pagato il giudice e il giudice si era spaventato, così aveva mandato qualcuno a dirci di fuggire subito.
Immagina, cinque bambini, mia madre incinta che urlava lungo tutto il viaggio, avrebbe dovuto partorire la settimana dopo. Su quella macchina Toyota vecchia, abbiamo corso fino al confine con Kirkuk. La strada era pessima mia madre aveva le doglie e urlava. Anche noi, tutti i bambini, urlavamo. Abbiamo lasciato dietro di noi tutto, anche i pigiami: non avevamo nulla. Appena arrivati ad Erbil mia madre ha partorito. Ed io sono tornato a Baghdad solo vent’anni dopo.