Per comprendere questa nuova grande storiella, bisogna fare un grande sforzo di immaginazione. Dico immaginazione perché quello che verrà raccontato, di questa missione umanitaria nel territorio palestinese, ci sembrerà una storia dell’altro mondo. Non vi immaginate una guerra epica. Che poi, neanche quella ha alcun fascino, in questi giorni lo sappiamo bene. Immaginate una guerra che punta al logoramento quotidiano. Difficile da raccontare, ancora di più da vivere. Marco e Martina ci sono andati. Hanno voluto vedere, con i loro occhi, una guerra invisibile, che torna sotto i riflettori solo per gli scontri “spettacolari”. Ci fanno tornare incollati ai televisori, a giudicare, come se noi la conoscessimo quella storia. E, invece, di questa brutta storia, forse non abbiamo capito molto, o almeno non tutto. Inutile provare a farlo qui. Ma si possono raccontare delle piccole storielle, come quella di At-Tuwani. Si trova tra le colline a Sud di Hebron, nella parte a sud della Cisgiordania e porta avanti, dal ’99, una resistenza non violenta. È in una posizione geografica particolare: ha una colonia da un lato, legale per il diritto internazionale ma illegale per il diritto israeliano; e ha, dall’altro lato, un avamposto, illegale sia per il diritto internazionale, sia per la legge israeliana. Partendo dal presupposto che l’obiettivo dei coloni sia quello di scacciare i palestinesi e impossessarsi delle terre, che rivendicano essere di loro proprietà, questo piccolo villaggio di 300 persone, di cui la metà bambini, ha iniziato ad essere attaccato da entrambi: sia dall’avamposto e sia dalla colonia. Questa è la grande storiella di volontari come Marco e Martina, che aiutano i palestinesi a non abbandonare le loro case.
MARTINA: Loro hanno deciso di non andar via e portare avanti una resistenza non violenta: restano sul territorio senza abbandonare mai le terre. Se durante la mia prima spedizione siamo sempre stati nel villaggio; la seconda volta che sono scesa (il visto massimo che ti rilasciano è di soli tre mesi e io volevo stare più tempo, ecco perché sono scesa due volte) è stato particolare. Nel villaggio, il modello della missione è ormai portato avanti da un gruppo di ragazzi palestinesi; per questo abbiamo provato ad allargare insieme a questi ragazzi il territorio da tutelare, spingendoci fino alla valle del Giordano, dove non c’è una rete di resistenza organizzata.
Partiamo da At-Tuwani. Qual è il modello di tutela e resistenza pacifica che la missione supporta?
MARTINA: Il nostro compito è quello dello SCHOOL PATROL. È l’unico villaggio della zona dove ci sia una scuola. Quindi, è l’unico luogo di istruzione per i bambini di tutti i villaggi limitrofi. Per arrivarci, però, i bambini devono percorrere un tragitto che passa tra la colonia e l’avamposto, che abbiamo detto essere illegale per tutte le leggi. Passando in mezzo, vengono quasi sempre attaccati, ed è per questo che è stata assegnata loro una scorta. Vuoi sapere la cosa divertente? La scorta, che dovrebbe difendere questi bambini palestinesi, dalla colonia e dall’avamposto israeliano, è composta dagli stessi israeliani.
I bambini hanno una scorta per arrivare a scuola?
MARTINA: Prima erano gli attivisti internazionali ad accompagnarli. Nel 2004, c’è stato un attacco violento da parte dei coloni. Fu allora decretato che servisse una scorta militare ai bambini palestinesi: per quella mezz’ora a piedi per andare a scuola, dovevano essere accompagnati dai soldati israeliani. Una scorta con indosso il mitra, che non scende dalla gip, che tratta i bambini come oggetti, esseri inferiori, come unica soluzione possibile.
MARCO: Lì il compito, per noi, è il ruolo di testimonianza, e di intervento: noi filmiamo tutto, così da avere delle prove tangibili in caso di aggressione.
È mai successo qualcosa di così grave mentre voi eravate là, e siete dovuti intervenire oltre che filmare?
MARCO: Sì. Accade spesso, è la loro strategia. Loro ti vogliono esasperare.
MARTINA: Esatto, per esempio la scorta è spesso in ritardo. I bambini perdono ore di scuola, non possono attraversare da soli. E se anche volessero venire autonomamente, alcune strade, secondo i coloni, non sarebbero agibili per i palestinesi. C’è una continua tensione.
MARCO: Soprattutto quando non arriva la scorta di soldati e allora immagini che devi andare tu a prenderli per fare il tragitto e lì cominci ad avere paura.
MARTINA: La scorta non arriva, allora chiami il bambino più grande, a cui è stato dato un cellulare. – Ve la sentite di camminare con noi su questa strada o preferite aspettare ancora?- Molto va a seconda di come se la sentono i bambini. E la cosa grandiosa è che sono veramente piccoli ma fanno delle scelte di un coraggio incredibile: loro vogliono venire a scuola, non ho mai sentito dire che volessero tornare a casa. E allora entrano in azione i volontari.
A voi è capitato di assistere alla scena di un attacco da parte dei coloni?
MARTINA: Sì. Fa impressione. Una volta addirittura con i cani. In quell’occasione eravamo insieme, eri appena arrivato.
MARCO: Sì, era il mio quarto giorno.
MARTINA: Noi muniti di telecamere, che sono sempre accese, alla mano, e nell’altra il cellulare per chiamare. In quell’occasione abbiamo visto la scena: i soldati della scorta ovviamente non hanno fatto il minimo gesto. Io sono andata verso i bambini correndo, allora sono scesi i soldati, e lui è rimasto giù a filmare. È sempre un gioco a due, non ti muovi mai da solo.
MARCO: Per sicurezza, ma anche per filmare sia in primo piano e sia tutta la scena in lontananza.
MARTINA: E poi quello che avviene è un’interposizione fisica: tu ti metti in mezzo. E poi riprende tutto un giro di chiamate: chiami l’avvocato, israeliano, che supporta la causa palestinese.
MARCO: Gli attivisti israeliani sono degli eroi. E perdono tutto, perdono contatti con le famiglie per aver sposato la resistenza palestinese o per aver rifiutato il servizio militare.
L’assistenza che date non è solo per bambini ma anche per i pastori. Per l’esperienza che avete avuto come vive il pastore il fatto che per andare a pascolare il gregge abbia bisogno della scorta?
MARCO: Dipende. Il corpo civile di pace è lì da 15 anni, ormai sono loro a chiamarci e segnalarci i vari spostamenti o bisogni. Ci accolgono volentieri, spesso anzi quando dovevamo fare pastorizia a Tuba, dormivamo da loro.
MARTINA: Loro vanno a pascolare su quelle terre che appartenevano alle loro famiglie, ai loro nonni, ma quelle terre sono ora definite di stato israeliano. L’accompagnamento è una tutela maggiore, soprattutto per quando ci sono periodi di tensione, e allora i coloni non ti osservano solo da lontano, ma ti infastidiscono, ti attaccano verbalmente, tirano pietre. La presenza degli internazionali non è che non faccia attaccare ma sicuramente fa abbassare il tiro, riduce la possibilità di qualcosa di troppo violento.
E quindi il vostro compito è registrare tutto: dall’attraversamento della strada che fanno i bambini per venire a scuola, fino al pascolo. E poi? Cosa avviene della registrazione?
Viene pubblicato sul canale dell’associazione, che poi viene ripreso da APG23 che ha diritto di parola all’Onu. Espone il nostro materiale: registrazioni e report che scriviamo mensilmente. C’è quindi un lavoro sul campo e uno di advocacy. Quando torni a casa alla sera, metti a posto il materiale, quindi tutti gli attacchi, tutte le violazioni che ci sono state. Dal materiale ottenuto si fa una raccolta dati, e poi da lì si creano i report, e si passa a tutta la parte della comunicazione.
Come si diceva all’inizio, a questa attività principale, si sono aggiunte nuove attività per mettere radice anche al nord. Grazie al lavoro dell’associazione, gran parte di questa supervisione è ora gestita in maniera autonoma all’interno del villaggio dagli stessi palestinesi. Ora bisogna espandere questo modello, arriviamo così a parlare della raccolta delle olive.
La raccolta delle olive è un momento particolarissimo, è molto conosciuto anche tra gli attivisti internazionali. C’è una grande attenzione anche mediatica.

Ma il problema principale è dato dal fatto che i palestinesi vanno a raccogliere le olive nei territori che gli israeliani rivendicano come propri?
MARTINA: Non solo, le colonie non si potevano costruire dove le hanno costruite, perché era stato dichiarato “terra di Palestina”. Poi ci sono stati gli accordi di Oslo, del ‘93 con la divisione in zone, e questa ha comportato che alla fine ai palestinesi venisse riconosciuta l’autorità civile e militare soltanto nelle zone di area A, le zone delle grandi città, come Betlemme. C’è poi la zona B, che segna il confine tra le grandi città e la campagna; ed infine, le zone C, quelle rurali. In quest’ultime, sono state fondate colonie sovvenzionate dallo Stato di Israele. Iniziano piantando una tenda, poi due, tre, fino a delle case, e così si crea una colonia. Spesso è abitata da pastori e contadini, che, piano piano, si allargano, si ingrandiscono sempre di più, prendendo nuove terre e cacciando i palestinesi, lanciando pietre e attaccandoli ogni volta che vanno su quella terra.
MARCO: Anche pallottole.
MARTINA: A volte i palestinesi rinunciano, “Abbiamo perso quella terra” perché la posta in gioco è diventata troppo alta. Il colone si impossessa della terra. Ma il problema è che non si accontenta di una valle, tende sempre ad espandersi.
Ma anche perché l’obiettivo stesso di Israele è quello di occupare l’intero territorio. Ed è stato lì che hai vissuto l’esperienza più traumatica della missione.
MARTINA: Noi eravamo in un villaggio che si chiama Burin. Una situazione terribile, perché si trova sotto la colonia di estremisti di ITZAR. Quando parte la raccolta delle olive, i coloni, già da settimane, si sono organizzati per come sabotare il raccolto: rubare le olive sugli alberi dei palestinesi, distruggere le piante, dare fuoco ai campi. Durante la raccolta, tutto questo prosegue. Stavamo facendo la raccolta delle olive in un altro campo, sempre lì vicino, quando abbiamo sentito degli spari: tre spari. E quindi qual è la logica di quel momento? Vai dove c’è bisogno. Siamo saliti, e siamo corsi con le auto. E la scena è stata allucinante. Mentre eravamo in macchina abbiamo visto come dei fantasmi: uomini mascherati che, dall’alto, guardavano i contadini palestinesi che stavano raccogliendo le olive. La cosa straordinaria dei palestinesi è che dove c’è il problema di uno accorrono tutti; quindi, già tutto il villaggio e i giovani erano lì: uomini, ragazzi, e anche alcune donne. Erano tutti corsi verso questi contadini, perché si vedeva benissimo che stavano arrivando i coloni ad attaccare. E quando i coloni sono mascherati significa che non vogliono farti le carezze. Siamo arrivati al campo, e poi, tutto in un attimo, hanno appiccato un fuoco, e con dei soffiatori lo hanno esteso verso di noi e verso i palestinesi. Un caldo che si moriva e un fumo per cui non vedevi più nulla. Hanno iniziato a sparare proiettili prima veri, e poi di gomma, e i sassi con le fionde lunghe che sono bravissimi ad usare. Sembrava davvero di essere al fronte. Poi il panico, non vedi più nulla, non senti più nulla, i rumori, le grida e la gente che veniva colpita…
Come fa ad arrivare lì, tra gli ulivi, in una giornata di raccolta, una guerra?
MARTINA: Tutto capita in pochissimo tempo. Io ho il ricordo di questi spari, che sento ancora. Mi ricordo le grida, i ragazzi che mi spingevano a terra perché arrivavano le pietre…Una pietra ha colpito la mia telecamera, io stavo riprendendo, me l’ha buttata a terra. E grazie al cielo avevo la telecamera davanti alla faccia. E poi non sai fino a che punto si vogliono spingere, perché poi hanno iniziato a sparare e si sono portati via i sacchi di olive raccolti. E poi sono arrivati i soldati che, ovviamente, israeliani, non hanno preso le parti dei palestinesi attaccati. Anzi, hanno arrestato i palestinesi! Non ci sono mai ripercussioni per i coloni che attaccano, mai.
Sono connazionali… E tutto questo, una volta documentato, è stato registrato e inoltrato. C’erano anche delle telecamere oltre alla tua?
Sì, sì. C’erano diversi video.
La cosa più difficile è essere consapevoli di andare ad aiutare sapendo che l’ingiustizia poi rimanga anche dopo la tua azione. E quindi forse il dolore grande è il ritorno: lasciare l’ingiustizia. Come avete vissuto il ritorno? E soprattutto, questa è un’ingiustizia che rimane ma che non è ben raccontata. Il conflitto tra Israele e Palestina si racconta, anche abbastanza male, quasi con parole da tifoseria qui in Italia, “Io sto con… io sto con…” solo quando accade qualcosa di eclatante. Prima di questo racconto non avrei mai pensato che questo conflitto potesse passare per il tragitto dei bambini per andare a scuola e per una raccolta delle olive. Questo non si sa, non passa. Non c’è la notizia, è la vita quotidiana. Come vivete il fatto di essere stati testimoni di un’ingiustizia che non si saprà mai del tutto, difficile da entrare nella coscienza perché non se ne parla?
MARCO: La tua battaglia non è mai stata in Palestina, la tua battaglia non è lì, è qui in Italia. E l’unica cosa che puoi fare è raccontare, perché sai che il tuo intervento giù è stato lodevole e sotto molti punti di vista anche utile: se quel contadino è andato a lavorare quel giorno, se ha avuto un giorno in più di attività, se abbiamo permesso ad un colono di non prendere quella terra, è stato utile. Ma la tua battaglia non è lì. Tu devi essere testimone, per venire poi in Italia ed iniziare la tua battaglia. E hai un solo canale, quello di raccontare, dal tuo blog agli incontri pubblici. Cercare di farlo tutti i giorni. Io parlo anche per un benessere personale mio. Poi il senso di ingiustizia rimane, e allora devi combattere ancora di più da qui. Non dimenticare e farsi la memoria per sempre. Certe persone te le porti dentro. Anche in questo momento, con te, sentiamo proprio il peso delle parole, per quelle persone che abbiamo visto, che abbiamo vissuto. È forte. Ma il tuo fronte è qua.