La grande storiella di Stefano

Una storia che traccia la linea che va dal “me” piccolo al “me” grande.

Chi sei e qual è la tua grande storiella?

Sono Stefano Nardella ho 28 anni, sono nato a Torino. La mia grande storiella riguarda il me piccolo. All’età di dieci anni, mi è stata diagnosticata una leucemia linfoblastica acuta, qua a Torino, all’Ospedale Regina Margherita. Ho fatto le cure dal 2004 fino a metà 2005, forse anche inizio 2006. Poi, a gennaio 2007, ho avuto una ricaduta, a seguito della quale ho dovuto fare un trapianto di midollo osseo, tra il 24 e il 25 maggio 2007. E poi, pian piano, ne sono uscito, ma da questa storia se ne sono mischiate tante altre: la storia di Ugi e la storia un po’ particolare del mio donatore. Avevano trovato un donatore qui a Torino, di 18 anni. Ma pochi giorni prima di entrare in centro trapianti, ci aveva chiamato la dottoressa e per dirci di andare in reparto per parlare.

Ci dicono che il donatore si era ritirato, perché sai, c’è la facoltà di ritirarsi… Avevano, però, trovato un altro donatore, americano. È andato tutto bene, il donatore ha accettato. All’epoca aveva circa 30 anni. Io mi ricordo che, nelle settimane successive, avevo sognato una persona che mi diceva: “New York”. Ed è da quel giorno che voglio andarci.

 

Incubi che sono paure e sogni che diventano realtà.

Tutto questo è frutto di un’elaborazione che c’è stata negli anni successivi: nulla è stato immediato. Fino a cinque o sei anni fa, non parlavo minimamente della malattia: per me era un argomento tabù. Reprimevo questo periodo. In tutti quegli anni, continuavo a sognare di avere il catetere nel petto e di non riuscire a svegliarmi. È una realtà che io avevo già vissuto, che ora diventava un sogno, un incubo. Di giorno la reprimevo, ma trovava comunque modo di manifestarsi di notte. Poi, pian piano, ho iniziato un percorso psicologico, dove ho iniziato ad elaborare la malattia. Ed è stata una scoperta perché mi ha aiutato a livello di consapevolezza. Anche nelle piccole cose che si vogliono nella vita, nel quotidiano. Se prima cercavo di adattarmi ad una normalità, reprimendo quello che sono in realtà, negli anni ho capito che questo era totalmente sbagliato. Anche perché adattarmi ad una normalità che non ho vissuto, che non sento mia, era come vivere una vita che non era la mia. Visto che ho dovuto vivere una vita che non volevo, in un determinato periodo, non lo trovavo giusto nei miei confronti. Pian piano ho smesso di fare quei sogni. Però, da quel momento, da quando è iniziata l’elaborazione di questo periodo, ho capito come trasformare dei momenti di debolezza particolarmente drammatici, in un punto di forza. Quel periodo ha formato e ha plasmato uno Stefano, che è sicuramente diverso ad un eventuale Stefano con un passato differente. L’ha plasmato tanto. Quel periodo in ospedale, mi ha avvicinato tanto alla musica e alla dedizione allo studio. Tanto che ho sempre cercato di mantenere vive queste due anime.

La resa dei conti

Facciamo ora un salto in avanti, alla fine del mio percorso accademico, quando ho discusso la tesi di laurea. Quando ho deciso di scrivere la tesi, mi sono detto: “Bene, questo è il momento di vedersi faccia a faccia con quello che è stato il mio passato.” Volevo rifarmi al corso di bioinformatica, una materia che studia l’applicazione di modelli informatici, come l’intelligenza artificiale, applicati nel mondo medico: nella ricerca, nella diagnosi e tutto quello che ne consegue. Ne ho parlato con la mia professoressa e ho deciso di prendere un dataset di leucemie, mieloidi e linfoidi, e iniziare, anche con il suo aiuto, ad analizzare i dati da un altro punto di vista, quello del paziente: cercare di raggruppare i pazienti che hanno patologie simili o geni simili in modo che, fin da subito, si riesca a definire se sia affetto da una leucemia mieloide o linfoide. Quando sono arrivato alla conclusione di quella tesi, mi sono reso conto che quel periodo della mia vita fosse diventato effettivamente le fondamenta di tutto quello che sto costruendo oggi. Ho proprio capito in quel momento cosa voglia dire la frase: “Puoi costruire delle grandi cose dalle proprie fragilità”. Io sono passato dal non dormire la notte a tutto quello che ho oggi. E voglio portare la testimonianza che questa cosa può passare, o meglio non credo che passi, si impara a gestirla. Il pensiero che questa cosa si riesca a gestire è effettivamente qualcosa di potente, ti rendi conto di quanto la mente umana sia potente. Dal non parlarne e sognarlo la notte, quindi con la mente che aveva il controllo sul mio corpo, ad imparare a gestirla, affinché la mente stessa sfoghi e alimenti il pensiero, per farlo rimanere vivo ma con un altro valore, con un altro spessore, con un’altra grinta. Dopo aver iniziato ad assimilarlo, ho cercato lo Stefano bambino e la domanda che mi sono fatto è stata: “Di cosa avevo bisogno io quando ero in ospedale? Cosa mi è mancato che mi ha portato a rimanere in silenzio per più di dieci anni?” Mi è mancata una persona che mi portasse la testimonianza del mio futuro, che mi potesse dire: “Guarda che ne esci fuori, ritorni ad una vita, non ritorni ad una vita normale. Ritorni ad una vita diversa, ritorni alla tua vita e non quella dei tuoi amici. Non sei obbligato a viverla come loro, puoi viverla come vuoi tu. La vivi in modo diverso perché ti rendi conto che ogni minuto è un minuto che tu stai recuperando. Vivi proprio con la sensazione che la vita sia in debito con te.” A me è mancata questa persona, una persona che mi desse anche lo stimolo a progettare il mio futuro, anche nel momento in cui effettivamente non potevo viverlo. Da lì ho iniziato a parlarne con i ragazzi e i bambini qua in Ugi, ed è liberatorio. Mi rendo conto che vivere, ritornare a vivere quei momenti attraverso gli occhi di un altro bambino o ragazzo, ti fa capire e ricordare quello che hai passato, ti fa capire quanto ti sei conquistato dopo. Qualche volta dico un grazie a quel periodo. Probabilmente, senza quel periodo, ora sarei un’altra persona e io son contento della persona che sono oggi, di quello che sono riuscito a costruire. Non di quello che sono riuscito a recuperare purtroppo, perché il tempo non si recupera. Prima, infatti, ci provavo e volevo fare sempre di più: mi dicevo che dovevo vivere quello che avrei vissuto in una vita normale e recuperare tutto quello che questa vita mi aveva tolto. È un’emozione contrastante: c’è un lato positivo che ti porta a puntare sempre più in alto: dall’altro lato, rischi di non goderti il momento e il traguardo raggiunto. Se tornassi indietro, avrei cercato prima la persona a cui chiedere aiuto. All’inizio, quando andavo dalla psicologa, erano 45 minuti di silenzio. Ora, invece, posso dire che la mia psicologa mi ha aiutato a risvegliare quel bambino e guardare anche con quegli occhi. È estremamente potente iniziare ad avere la propria consapevolezza, la propria vita speciale.

Credo che la figura dello psicologo, a prescindere dal passato di ognuno, dovrebbe essere una figura tanto importante quanto il medico di base. Mentre sei dallo psicologo non hai più paura dei tuoi limiti, non hai più paura delle tue paure. Io che continuo ad andarci, con una frequenza minore, credo che sia una figura fondamentale, per imparare a non attribuirci delle osservazioni che non sono nostre. 

Il “me” di oggi e quella puntata al TG.

C’è stato un episodio particolare in cui ho visto scontrare lo Stefano piccolino e lo Stefano di oggi. Io non credo nella casualità, io credo che ci siano sempre dei segnali della nostra vita, che arrivano in modi particolari, sta a noi poi captarli. Era l’inizio di radio Ugi ed ero andato nella saletta adolescenti, a casa Ugi, dove c’era la tv locale per fare un servizio da mandare al tg. C’era il direttore artistico che ha raccontato chi fossimo e al tavolo c’erano altri speaker, altri bambini ed io. Ha detto: «Ecco Stefano! È un ragazzo che da bambino ha avuto una leucemia, e ora è passato a fare lo speaker della radio, per portare la sua voce.» Quando si spengono i microfoni, un bambino viene di fronte a me e mi dice: «Stefano, ma anche tu da piccolo hai avuto una leucemia come me?» Anni fa, non avrei saputo rispondere. Non ne parlavo. E lì mi sono detto, chi risponde ora? Ora risponde Stefano: «Sì, anche io. Piano piano ne sono uscito: ho fatto tutte le cure e sono tornato alla mia vita, ad uscire con i miei amici e adesso sono qua perché mi diverto tanto con voi. Magari un giorno ti divertirai anche tu!” Ho cercato di fargli vedere il lato bello. E vuoi sapere la cosa paradossale? Questo bambino si chiama Stefano. Questa è radio Ugi, questa è la sua potenza: il fatto di condividere delle emozioni, condividere delle esperienze con i ragazzi e i bambini, senza avere filtri, permettendo loro di fare domande, di dare loro una voce. Letteralmente. Visto che durante le cure, il fisico cambia, tramite lo strumento della radio i bambini e i ragazzi possono fare un’attività senza essere visti, ma poter comunque dire “Io ci sono”. Ed è il modo per entrare nella normalità con la nostra specialità.

Pubblicato da Grandi Storielle

Siamo sei ragazze, Carola, Celia, Hannah, Livia, Morena e Sara che si sono conosciute in Erasmus a Chambéry e hanno ora deciso di mettere a disposizione la loro piccola ma grande arte per tutti.

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