La grande storiella di Giovanni Crisanti
Ha molto senso iniziare a parlare di politica partendo da una città e da un suo cittadino. Centro e insieme oggetto della politica è la πόλις, la vita nella città e della città: la vita del cittadino. E oggi parliamo con un cittadino che si è fatto carico di questa piccola parolina greca, quando ha deciso di tesserarsi per la prima volta nel suo partito, nel 2017; quando ha scritto il suo primo libro, Battiti; quando si è candidato all’Assemblea Capitolina nelle elezioni amministrative di Roma. Parliamo oggi della Grande Storiella di Giovanni Crisanti.
Si parte dal suo primo libro, Battiti, l’armonia del cambiamento, un libro che raccoglie delle domande che Giovanni si è posto sulla (debole) relazione tra i giovani e la politica. Il messaggio che vuole lanciare riprende in un qualche modo l’incipit di quest’intervista: tutti noi, ogni giorno, in quanto cittadini, facciamo politica.
L’idea di fondo è che tutti facciamo politica nel nostro quotidiano. Ma poi c’è chi vuole fare della politica, la propria missione di vita. Quando c’è stato questo passaggio dalla politica indiretta e quotidiana alla politica come unico obiettivo, per te?
Direi che sia avvenuto in una lunga transizione iniziata al quinto liceo, con la rappresentanza d’Istituto, e il primo anno di università. Mi ero già avvicinato alla politica: in occasione del referendum costituzionale, mi è stato chiesto di seguire una parte social del mio partito, il PD, per i giovani. Ho viaggiato in giro per le città, con l’allora segretario Renzi. Ho iniziato a far politica anche perché c’era lui come Segretario e poi Presidente del Consiglio. Dinamico, con una visione molto chiara e riformista, progressista.
E ora?
È stata sicuramente una figura cruciale, determinante ed importante per me ma anche per il Paese: il suo governo ha fatto dei passi avanti, dal mio punto di vista, su diritti civili, posti di lavoro, sulla scuola, sulla cultura. Adesso ha preso una strada che non condivido.

Hai deciso di candidarti con il PD, che ha vinto al ballottaggio. Come hai raccontato anche tu, hai raggiunto più di 1200 preferenze. Purtroppo, non è bastato. Nel frattempo, l’idea è quella di studiare e mettere in pausa la politica?
Ho sempre studiato e fatto politica. Penso che lo studio sia fondamentale per comprendere la realtà e fare delle previsioni. Se non si legge quello che succede non lo si può, di conseguenza, neanche governare. Non ho paura a dire che anche i politici debbano investirci tempo e coraggio nel portare avanti più cose insieme, soprattutto quando si è giovani.
Una chiave per comprendere questa realtà prevede la teoria ma anche la pratica, lo slancio propositivo: decidere di capirla ma al tempo stesso migliorarla, cambiarla. Immagino che questa sia la base da cui è nata l’asSociata. Ce ne vuoi parlare?
L’asSociata nasce nell’ottobre del 2018, con il suo primo evento, ovviamente organizzato con mesi di anticipo. È stato un duro lavoro all’inizio: trovare una sala, trovare uno sponsor, chiamare ogni singola associazione romana. È stato un lavoro gigantesco che ho fatto con amici di università. L’asSociata nasce dal fatto che noi, come generazione nuova, non sentiamo spesso un richiamo e una rappresentanza nei partiti. Allo stesso tempo, non vogliamo creare un partito alternativo ma uno spazio in cui dialogare e cercare di costruire delle proposte, anche dialogando con chi la pensa in maniera diversa da noi. In questo modo, creiamo una leadership di pensiero e di azione che poi ognuno rappresenterà nel proprio ambito politico ideale. L’obiettivo è quello di mettere a rete i ragazzi, con le associazioni e con le istituzioni.
Il dialogo sarà con tutti i partiti?
È nato come un dialogo aperto, nel frattempo siamo cresciuti, io allora avevo 19 anni, ora ne ho quasi 23. Abbiamo deciso di dichiarare che siamo un gruppo riformista e progressista, schierato quindi non con partiti, ma in un campo che va dal centro e guarda a sinistra. Si dialoga anche con gli altri, ai nostri eventi sono venuti tutti, tranne gli estremisti, né da una e né dall’altra parte.

Città e cittadino: l’essenza della politica come abbiamo visto fino adesso. Avete già fatto delle proposte per la vostra città, Roma?
Abbiamo già portato diverse proposte. Un piccolo esempio? L’illuminazione di un campo da basket qui in zona Flaminio, frequentato da molti giovani. Crediamo che lo sport sia occasione di socialità e di salute fisica e mentale. E ora stiamo chiedendo di rinnovarlo, credo ci riusciremo.
Abbiamo una nostra visione della città. Per esempio, della sua mobilità, che condivideremo con il sindaco; una visione sulle case popolari e l’edilizia residenziale pubblica che noi abbiamo chiamato circolare: cercare di proporre un modello virtuoso e sostenibile a partire dall’edilizia pubblica residenziale con pannelli solari, aree verdi, collegamenti diretti con la città. C’è un progetto sotto questo aspetto e credo che con l’assessore attuale riusciremo a dialogare benissimo. E riscriveremo nuovi obiettivi futuri.
Qual era, tra le tue varie proposte in campagna elettorale, quella più importante per te?
Il punto principale era lo sport. Le aree sportive all’aperto e poi al chiuso quando necessario. Dopo l’esperienza Covid, ci siamo resi conto essere necessarie per creare socialità e quindi anche sicurezza di rimbalzo, e una salute sia fisica ma non solo per i giovani, anche per gli anziani, sia mentale. Abbiamo proposto una serie di riqualificazioni di aree sportive che già ci sono e la costruzione di nuove.
Ho proposto la creazione di due spazi di incontro sociale: uno per giovani che vogliono avviare attività di impresa, start-up, che possano dialogare anche con le università, con i creditori e gli investitori; il secondo, con giovani artisti che vogliono fare musica, teatro, dipingere ed esibire le opere, un luogo dove poter fare spettacoli e creare una rete che faccia sistema. Questi non sono progetti che muoiono con il mio fallimento con la candidatura, ma con cui lavoreremo con l’associazione e seguirò anche in prima persona nel partito.
Certo, anche perché la fiducia che hai raccolto era dovuta a queste proposte che sono piaciute. Durante la tua campagna hai avuto modo di osservare questa scollatura ormai evidente tra la popolazione e la politica? Hai fatto molta campagna per strada, che è una cosa che non va quasi più di moda. Com’erano le reazioni?
La campagna per strada non va di moda perché non porta voti. Li porta se devi fare una campagna nazionale, d’opinione, ma se devi prendere il voto di preferenza, è difficile. Mi ha permesso di rendermi conto di quello che succede in città e in territori diversi, mentre chi sta solo sui social, e io ci stavo tanto, non se ne rende conto. C’è una scollatura evidente: io avevo capito benissimo che l’affluenza sarebbe stata così bassa, addirittura sotto il 50%: uno su due che beccavo mi diceva che non avrebbe votato.
Da cosa è portata?
A Roma abbiamo avuto Alemanno, poi la parentesi di Marino, che non ha ingranato per questioni note, e, infine, Raggi: tre amministrazioni che non vengono ricordate come virtuose. La città sta messa male. E i cittadini si sono stancati di votare senza trovare nulla in cambio.
Il problema più grave che speri che Gualtieri riesca ad affrontare, non dico risolvere, ma almeno ridurre?
I due problemi fondamentali rimangono i rifiuti e i trasporti. Una città sporca e indecorosa, una città dove i trasporti non funzionano, comporta un peggioramento della vivibilità: i tuoi se ne vanno e da fuori non arriva nessuno.
Puoi spiegare il vero grande problema dei rifiuti?
Roma non ha gli impianti per smaltire i rifiuti. Nessun sindaco si è mai preso la responsabilità di costruirne perché sono impopolari. Ogni tot tempo dobbiamo rinnovare degli accordi per pagare per vendere i nostri rifiuti, per appaltarli, a regioni o città o stati stranieri. Questo comporta che vi siano dei periodi, in cui non sappiamo dove farli sostare. E abbiamo un problema simile con Atac: i mezzi non funzionano perché sono vecchi, non ci sono le infrastrutture. Di conseguenza, in un contesto così scomodo, i lavoratori sono meno incentivati a lavorare in un certo modo, così come i colleghi in Ama: faccio il netturbino, raccolgo i rifiuti e poi non so dove metterli… Richiediamo di fare la differenziata e poi non so dove mettere la carta. Perché lo dovrei fare bene?
I giovani che sono entrati nel consiglio comunale riusciranno a cambiare qualcosa?
Credo che abbiano la voglia e la capacità di mettercela tutta per portare un incentivo. È importante che continuino ad ascoltare le voci esterne: Roma la risolvi anche copiando quello che fanno fuori. Per farlo bisogna ascoltare e studiare.

Domanda classica per ogni giovane italiano. Perché decidi di rimanere in Italia? Di rimanere a Roma?
Principalmente perché mi piace. Non sono uno di quelli che dice che si debba rimanere in Italia per forza, per fare del bene al tuo Paese. Io sono nato nel mondo e nel mondo posso vivere dove mi pare e ho il diritto di farlo. Siccome siamo particolarmente fortunati perché viviamo in un paese oggettivamente bello, allora sarebbe carino che fosse anche ben amministrato e ben gestito, frequentato da persone che ci si impegnano.
Ma alla fine, la vera risposta rimane tutta in quella piccola parolina che lo accompagna da sempre: πόλις.
La grande storiella di Carlotta di Casoli
Candidata per le elezioni amministrative di Vasto, attivista per Nonunadimeno, Carlotta ha le idee chiare e non ama scendere a compromessi. Per questo motivo la sua grande storiella è posta fra quella precedente che tratta di politica, https://grandistorielle.com/2021/12/04/la-grande-storiella-di-giovanni-crisanti/; e la prossima, che racconterà di attivismo e della Cop26. Ma ora diamo spazio a lei, alla grande storiella di una giovane donna che si affaccia al mondo della politica e domina quello dell’attivismo per se stessa, per me, per voi, e per tutte quelle che ancora non credono nella causa. Lei combatte anche per voi.
«Nonunadimeno ha sicuramente rappresentato una tappa fondamentale nel mio percorso transfemminista. Ho iniziato con la partecipazione alle manifestazioni di rilevanza nazionale, l’8 marzo e il 25 novembre, e ora che sono qui, a Roma, dove mi ci dedicherò con un impegno più continuativo, con assemblee settimanali cittadine, per inserirmi nel collettivo nazionale.»
Quand’è che si passa dal credere un po’ in una causa, come quella contro la violenza sulle donne e di genere, ad essere attivisti? Molti, per fortuna, sono sensibili all’argomento, però, solo per alcune, avviene il passaggio importante dall’essere sensibile al fare attivismo.
Direi che dipende dal tuo senso di giustizia e di empatia. Direi che dipende da quante volte hai abbassato la testa. C’è un punto di rottura: un punto in cui dici basta.
Quando è successo per te?
Ho vissuto due separazioni. La seconda è stata quella più incisiva anche dal punto di vista del mio attivismo: una presa di coscienza di me stessa e del mondo in cui ero immersa. Il passaggio all’attivismo non è immediato. Deve lievitare qualcosa, e lo senti piano piano crescere e, spesso, o comunque nel caso del transfemminismo, si accompagna quasi sempre a molta rabbia. Perché non credo ci siano donne che non abbiano subito violenza nella loro vita. C’è solo una diversa capacità di prenderne coscienza, non è facile. Noi viviamo in una società patriarcale: è questa la grande premessa. Spesso le donne ne sono complici perché nascono in famiglie che, nella maggior parte dei casi, insegnano loro ad essere comparse, contorno della vita di un uomo, discrete, a sorridere, essere belle, curarsi: anche questa è violenza. L’obiettivo intrinseco è il compiacimento dell’uomo accompagnato dal silenziamento dell’opinione sociale. Penso alle piccole realtà, come può essere quella di Vasto: “Non fare questo altrimenti chissà cosa dice la gente”. Non fare per non far dire.
“Devi essere quello che vuoi essere. Siamo tutte parte di una società, di un mosaico. Siamo tessere, ognuna è lì per dare il suo contributo e unite possiamo creare i capolavori che siamo abituate a vedere nei musei.”
Nell’immaginario collettivo sembriamo tutti essere contro la violenza sulle donne. Sembra quasi retorica ma i fatti la contraddicono. Se guardiamo i dati fino ad oggi, nel 2021 è morta una donna ogni tre giorni. Per ora vengono considerati femminicidi, e quindi violenza di genere, circa 96 uccisioni di queste. Ma io credo che vi sia sempre, in maniera intrinseca, una violenza di genere: sapere di essere più forte dell’altro sesso e quindi poter usare questa premessa come base per sferrare una violenza, non necessariamente legata unicamente al suo genere. Eppure quando se ne parla in giro sembra che la pensiamo tutti nello stesso modo.
Il femminismo è un po’ una moda. Le persone che si dicono favorevoli alla lotta della violenza maschile sulle donne non hanno ben chiaro quello che stanno dicendo, neanche la portata della questione. L’attivismo deve farsi carico dell’informazione e di fare informazione in un certo modo, soprattutto in quest’Italia in cui la stampa generalista non riesce a fare il suo lavoro come dovrebbe.
Non riesce a raccontare un femminicidio con le parole giuste.
Interrogarci sulle competenze delle persone che ci informano e ci governano non è un discorso populista. Bisogna iniziare a parlare delle cose in maniera corretta.
E seria.
Bisogna saper comunicare, colmare alcune lacune evidenti e mi auguro che questo non avvenga interpellando uomini, etero e cis ma parlando direttamente con le donne, ben venga se di minoranze etniche. È un problema intersezionale. Bene alla lotta al maschilismo, al sessismo, al patriarcato insieme alle altre lotte che vanno ad intrecciarsi con questa. Noi donne bianche, etero cis, non godiamo di un privilegio; ma in quanto bianche, eterosessuali e cis sì, abbiamo dei privilegi rispetto ad altre donne. E allora io donna con privilegi devo chiedermi: la persona diversa da me come vive la sua vita? Sta bene? Sto lottando anche per te.

È intersezionale, come dici tu e tocca tutte le classi sociali, ovviamente in maniera diversa. Ma è anche vero che la lotta sociale nasce sempre dal basso, che vive in maniera vivida e lampante ogni tipo di discriminazione, tra cui quelle di genere.
C’è un punto di svolta per tutte.
Sei entrata anche tu, nel mondo della politica, come candidata a Vasto. Hai mai ricevuto giudizi e problemi di sessismo nel momento della tua candidatura e durante la campagna elettorale?
Sì. Ma credo che l’unica che fosse in grado di rendersene conto fossi io. Sei un’alternativa, non sei la protagonista. Se il piano B. Le donne raramente hanno la possibilità, nelle piccole realtà, di emergere per il fatto di essere delle donne meritevoli. Non voglio essere fraintesa, ma la sensazione che ho avuto è di essere in qualche modo d’accompagnamento, non da parte di persone della mia lista, “Filo Comune”, ma nel sistema. È stata una bella esperienza davvero. Ma devo dire che anche il mio atteggiamento è stato in qualche modo passivo. Mi sono resa conto che sentirmi dire certe cose abbia giocato in maniera sfavorevole sulla mia capacità di impormi, sulla mia autorevolezza, ed è una cosa che mi ha spiazzata. Non me l’aspettavo. Non mi aspettavo che io, proprio io che mi faccio promotrice di queste battaglie, mi potessi trovare in quella condizione. Allora, se io che faccio del transfemminismo la mia missione mi trovo ad essere soggiogata da questo scherzo patriarcale, pensa a tutte quelle donne che non ne sono consapevoli.
Qual è quella cosa che manca ed è fondamentale in questo momento per l’eliminazione contro la violenza contro le donne? L’ Inchiesta condotta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di genere, per la prima volta dà dei dati scientifici: una base sicura su cui partire per analizzare il fenomeno. E i dati sono assurdi: per il biennio preso in analisi, 2017-2018, aveva denunciato solo il 15%; più del 60% non aveva esternato a nessuno il fatto di aver subito violenza. Come se fosse una colpa. Ci sono stati dei miglioramenti, come l’eliminazione del rito abbreviato e l’introduzione del Codice Rosso. Ma qual è il tassello che manca, di questo famoso mosaico?
Alla manifestazione ho letto una cosa che è stata poi graffitata credo in piazza Vittorio, Smash the patriarchy is selfcare. Noi donne dovremmo pensare di più a noi stesse, al nostro benessere. Dobbiamo saper prendere coscienza di quello che siamo come individui, dei nostri bisogni, senza sentirci colpevoli di quei bisogni.
Il sesso non è visto come bisogno fisiologico. È sempre qualcosa che per la donna è opinabile. Freud avrebbe da ridire, ma secondo me la liberazione sessuale della donna è importante perché è il contatto più intimo che la donna ha con se stessa. Quando intavoliamo provocazioni al mondo conservatore, bigotto, ci stiamo riappropriando di noi stesse, una parte di noi che ci hanno sempre privato.

Possiamo dire allora che il tassello che manca, oltre ad una corretta educazione per gli uomini, sia una corretta ri-educazione per le donne?
Assolutamente sì. Le parole chiave sono: famiglia ed educazione sessuale a scuola.
Torniamo alla tua candidatura. Qual era la proposta a cui tenevi di più? È una domanda che ho fatto anche a Giovanni Crisanti.
La creazione di centri di aggregazione pubblici, alcune zone rosa ad uso e consumo unico delle donne.
In Italia penso sia il bar il luogo di aggregazione pubblica per eccellenza.
Esatto! L’individualismo, che è il male del secolo, ha portato ad un isolamento tale per cui le persone non si conoscono. Non conoscendosi, non c’è dialogo e non si crea una collettività. La mancanza di coesione a livello cittadino è dipesa da una mancanza di incontro e cooperazione. La creazione di centri di aggregazione laici sono essenziali in questo momento storico, per recuperare socialità.
Quindi la creazione di spazi comuni, pubblici, sociali e laici.
Ti faccio un esempio. Io donna musulmana migrante devo avere la possibilità di poter interagire con la società che mi sta attorno. Non voglio andare in parrocchia perché non mi rappresenta, ma ho bisogno di un luogo pubblico, che mi metta in comunicazione con gli altri, che non sia il mio luogo di lavoro. Bisogna ricreare le basi per una nuova concezione di vita sociale, perché questo porterebbe benefici, in tutti gli ambiti della vita pubblica.
Sarebbe uno di quei risultati intersezionali.
Non c’è vicinanza con la politica. Bisogna ripartire dalla socialità, per una nuova partecipazione ed un nuovo interesse tutti i giorni. La politica non è altro che un attivismo quotidiano: i miei problemi diventano problemi di tutti.
E questo è un altro punto in comune con Giovanni Crisanti: la percezione del distacco tra elettori ed eletti, l’idea che tutti i giorni facciamo politica. Cosa spinge un giovane, magari attivista, a rimanere in Italia?
L’amore per questo Paese. Non mi vedrai da nessun’altra parte. È la mia casa e bisogna assumersi le proprie responsabilità da cittadini. Facciamolo insieme.
PS: per approfondire i dati dell’inchiesta sopracitata, avevo scritto un articolo per la testata Generazione Magazine, lo lascio qui. https://generazionemagazine.it/di-genere-in-italia-si-muore/