Una grande storiella che riesce ad aprire le varie porte del sé
Io mi chiamo Hamdan Jewe’i e vengo dal campo profugo di Desha, uno dei campi più grandi e principali qui a Betlemme. Mi sono vissuto una storia un po’ particolare: sono stato isolato fino all’età di undici anni, per la vergogna. Sono nato con mancanza dell’ossigeno nel cervello, con una prima paralisi celebrale che mi ha portato una paralisi alle gambe. Un figlio con handicap, per la nostra cultura, è motivo di vergogna e dev’essere nascosto dalla società. Ho poi capito che non era colpa della mia famiglia, poiché veniva da quella cultura e tradizione che dice che quando nascono figli con handicap è un problema: bisogna prima di tutto sistemarli a livello matrimoniale; e poi si pensa che sia una questione genetica, che possano nascere altri figli con handicap. C’era una mancanza di consapevolezza su come si potesse far crescere un figlio con handicap, in una società che purtroppo ne dà un valore negativo. Alla fine, è anche la stessa famiglia ad essere isolata nella società. Questo è stato un ostacolo, ero arrivato ad un punto in cui non sapevo più cosa fare. Io purtroppo ho anche provato a finire la mia vita, diverse volte, uccidermi no… non è andata.
Il giorno della rivolta
Io non ce la facevo più. Volevo uscire, volevo dire a tutti che io sono umano come voi anche con questa situazione fisica, questa disabilità che non è colpa mia, e neanche colpa di Dio. Perché ad un certo punto mi chiedevo perché Dio avesse creato me in questa situazione: tutti gli altri sono sani e io, invece, con handicap. Mi sentivo come un gatto nella scatola, se lo metti per tanto tempo, vuole scappare via e ti graffia. E così ho fatto. Un giorno, quando è arrivata la mia mamma, per portare il cibo per farmi mangiare, sono riuscito a scappare. Sono riuscito ad arrivare sulla strada e conoscere quel vicino di casa che mi ha portato a casa sua. Voleva sapere chi fossi, perché non sapeva della mia esistenza. C’erano anche amici e parenti di famiglia che non sapevano della mia esistenza, perché ero rimasto nascosto. Pensa che amici di famiglia che ho conosciuto dopo mi hanno detto: «Noi sapevamo che tuo papà aveva tanti figli ma non sapevamo di te.» Poi ho capito che la colpa non era della famiglia, ma della cultura e della società. Purtroppo, anche la società non ha aiutato la mia famiglia a coinvolgermi come una persona normale, come una persona che esiste nella vita. Poi io sono rimasto per un paio di giorni a casa del vicino. Lui provava a fare da mediatore tra me e la mia mamma. All’inizio non riusciva, perché lei diceva subito di non volermi più indietro, perché lei portava vergogna e quindi era meglio che io rimanessi lì, poi ha cambiato idea. Due giorni dopo, è stata lei a chiedermi di tornare, perché sai, qualcosa l’ha svegliata da dentro. Sono tornato a casa e piano piano hanno capito, hanno cercato di coinvolgermi. Poi, sono arrivati i volontari che facevano assistenza sociale, dell’YMCA, young men’s christian association. Con loro ho incominciato a fare consulenza alla mia stessa famiglia, sono riuscito ad insegnare l’importanza di dare un diritto ad un umano, anche i diversamente abili sono abili no?
Un nuovo equilibrio
La mia famiglia ha visto come i volontari trattavano le persone con handicap: in modo umano, non in modo cattivo. Piano piano la mia vita è cambiata. Da che ero stato isolato, prima in una struttura per disabili, dopo, quando non potevano più tenermi, imprigionato e nascosto nella mia stessa casa fino a 11 anni, ora faccio volontariato per gli altri. È diventato un modo per aiutare altre persone, nella mia stessa condizione. È stato molto faticoso iniziare a studiare: sono entrato a scuola tardi, in ragione di certe reticenze: per esempio, non ci si voleva prendere la responsabilità in caso di incidenti. Noi palestinesi con disabilità non abbiamo diritti; esiste una legge che però non è stata mai applicata. Non abbiamo assistenza sociale, sanitaria, pensione, non abbiamo niente. Oggi si parla di 270.000 disabili palestinesi tra Cisgiordania e Gaza (5% della popolazione), nati con disabilità o diventati disabili a causa del conflitto israelo-palestinese. Queste due categorie hanno un diverso trattamento: la società guarda alle persone che diventano disabili a causa del conflitto come eroi (ricevono una piccola pensione di circa 20 euro al mese e una piccola copertura sanitaria), mentre le persone che nascono con disabilità non vengono riconosciute e dipendono economicamente dalla famiglia. Nella mia personale esperienza di volontariato, ho conosciuto molte storie di persone con disabilità nascoste dalle famiglie per anni, decenni, alcuni in cantina o con gli animali, legati con catene, spesso lasciati in questa condizione fino alla morte. Culturalmente, la responsabilità della disabilità dei figli viene attribuita alle donne, spesso abbandonate dai mariti. Anche se le cose stanno cambiando, in parte grazie alle associazioni, la condizione di noi disabili è ancora critica, soprattutto nel Sud della Palestina, più conservatrice. La mia famiglia è originaria di un paese del Sud (ora non esiste più, c’è una colonia israeliana) in cui mancano i servizi sociali e sanitari, così come associazioni che invece operano in altre parti della Palestina.
Un equilibrio impossibile
Esistono delle storie molto dure e tristi, purtroppo, come quella di un ragazzo che ho conosciuto tempo fa, lasciato vivere con le pecore e che per questo motivo non sapeva esprimersi nella nostra lingua ma comunicava come gli animali con cui era cresciuto. Io ho cercato di combattere per migliorare la condizione di queste persone ma sono spesso percepito come uno straniero che vuole cambiare la cultura e lo stile di vita, ricevo molta ostilità. È un ambiente molto chiuso, talvolta anche rischioso per la mia incolumità, ho ricevuto molte critiche. La nostra condizione di palestinesi abitanti in un campo profughi è molto particolare: siamo stati trasferiti dai nostri villaggi di origine nei campi delle Nazioni Unite. Fino agli accordi di Oslo, i campi profughi erano circondati da filo spinato e avevano una porta elettronica, l’unico punto di entrata e uscita per i profughi (si doveva richiedere un permesso al direttore UNRWA del campo). Noi abitanti dei campi profughi abbiamo una carta di identità rilasciata dall’Onu che ci identifica come profughi. Israele guarda a noi come i palestinesi più pericolosi perché, secondo Israele, la resistenza all’occupazione nasce nei campi profughi (maggiore sofferenza) e quindi c’è un diverso trattamento. Con la carta verde che possediamo, in seguito agli accordi di Oslo, non possiamo comunque spostarci senza il permesso di Israele, nemmeno uscire da Betlemme e andare a Gerusalemme per esempio. Per me è più facile chiedere il visto per venirvi a trovare in Italia che andare a Gerusalemme. Infatti, la prima volta che ho visto il mare nella mia vita è stato in Italia. Tanti bambini e giovani che abitano nel campo profughi non hanno mai visto il mare, anche se sta a 50 km di distanza. Noi persone con disabilità viviamo due tipi di occupazione: sia da parte della cultura palestinese e sia da parte di Israele. Quando sono nato non ero registrato all’anagrafe da subito perché non era nell’intenzione dei miei genitori, per il mio handicap. Il problema, non solo per le persone disabili ma per tutti i palestinesi, è che i bambini palestinesi devono prima avere il permesso di Israele per stampare il certificato di nascita (i tempi sono lunghi, qualche mese). Siamo già occupati da neonati praticamente. I palestinesi hanno diverse carte di identità, in base alla loro condizione (abitanti della Cisgiordania, dei campi profughi, di Gaza, “arabi israeliani”, ovvero i palestinesi rimasti in territorio israeliano dopo la guerra dei sei giorni nel 1967). In Israele, esistono servizi diversi per gli ebrei e gli “arabi israeliani” (es. negli ospedali hanno reparti divisi). Le risorse sono suddivise in maniera iniqua tra Israele e i Territori Palestinesi: i palestinesi hanno il divieto di scavare tunnel per accedere alle fonti idriche, gli israeliani se ne accaparrano la maggior parte.
La vita ora
Sono stato fermo per quasi tre anni lavorativamente parlando. Voglio riprendere il progetto di turismo sostenibile, facendo la guida e portando in giro le persone per renderle consapevoli della nostra realtà in Palestina e nei campi profughi, anche seguendo alcuni progetti come, ad esempio, associazioni di donne con figli con disabilità. Ma voglio concludere con un pensiero. Io ho perso diversi parenti in questo conflitto ma sempre nei miei incontri e interviste dico che non odio nessuno ma che vorrei essere accettato come un palestinese, come un umano come uno che è nato su questa terra. Ho quindi il diritto di avere la mia libertà, la mia dignità, la mia giustizia, di essere trattato come umano. Avere il diritto di lavorare dove voglio andare a lavorare, avere il diritto di andare al mare, avere il diritto di viaggiare, avere il diritto di attraversare tutti i confini, e purtroppo io non ho il diritto di attraversare neanche il checkpoint per andare dall’altra parte a Gerusalemme, per esempio, a visitare Gerusalemme. Non ho il diritto di attraversare il check-point perché sono palestinese. Questo non è giusto no?