La grande storiella di Suor Elisa

Storia di una ribellione

Mi chiamavo Margherita, un nome molto bello. Visto che a quei tempi si considerava la vita consacrata come una nuova vita, ho preso il nome di Elisa. Sono suor Elisa e ho scoperto che chi porta il nome “Elisa” ha sempre una marcia in più: esuberante, che vuole fare, sempre in movimento.

È scattato qualcosa in me, vivendo nella mia famiglia. Vedendo mia sorella, le mie cugine, vedendo le amiche, che cominciavano ad avere il ragazzo, perché erano più vecchie di me, io le osservavo. Pensa che i miei genitori mi mandavano sempre dietro a loro, per controllare. Dopo aver osservato, mi sono detta che per me, per il carattere che ho e per come sono fatta, era troppo poco: formare una famiglia, stare sempre con un uomo, dei figli. Tutto bello ma per me era poco. Dovevo trovare una formula che mi desse la possibilità di far esplodere tutto quello che avevo dentro. E l’ho cercata, andavo a vedere in parrocchia, dove mi parlavano delle missioni e ho pensato: «Vorrei andare anch’io a vedere, fare, dare.» Volevo qualcosa in più. E quando ho fatto le prime esperienze ho capito che questa fosse la vita “del più”. Qui ho una famiglia grande che è il mondo, non posso mai dire di no che non posso amare, perché arrivo a tutti.

Lasciare tutto tranne la ribellione

Mia mamma era contenta, mio papà non tanto, la gente del paese pensava che fossi matta, diceva: «Sta dentro quattro giorni e poi viene fuori». Effettivamente mi è costato molto inserirmi all’interno della vita religiosa: era un quadretto con norme, formule, dove ti volevano far incanalare ma con me non ci sono riusciti. Forse sarebbe stato più facile inserirmi come hanno fatto le mie compagne, ligie nella formazione, con i libri sotto il braccio. Ma io pensavo: “Se faccio in quel modo, io divento un mostro. Non sono più me stessa.” E ho portato avanti sempre questa essenza: ero una ribelle. Mi facevano far penitenza, ma erano loro a scontrarsi con me, perché io ero contenta, tranquilla. Fino a quando, un giorno, una compagna mi ha detto di non stare troppo a pensarci, perché, secondo lei, io avevo due forze: amore e allegria. Io da quella volta lì sono sempre andata avanti. Il primo punto della vita consacrata è Gesù Cristo. Infatti, il giorno della professione, con i voti, metti la vita in mano di Dio e dei superiori. Sono arrivata ai tre anni di voti, e sono andata a chiedere per proseguire. E i superiori mi hanno detto: «Meglio che vai fuori». Lì è stato micidiale, per me. Mi hanno detto che per il mio carattere, così esuberante, forse mi sarei trovata meglio altrove. Io ci sono rimasta male ma ho solo risposto: «Io sono felice, contenta. E basta». Forse lo hanno per fatto per testarmi, non so. Comunque io sono andata avanti e sono l’unica delle mie compagne ad essere rimasta. E sono felice. Ho portato avanti le mie radici e non ho mai creato un distacco con la mia famiglia: ovunque ero e sono la famiglia è sempre con me.

In giro per l’Italia

A Roma, ho fatto il postulandato, noviziato e i primi tre anni di voti e poi ancora tre anni e i voti perpetui. Poi, devi sapere, che la vita consacrata non è la perfezione. Si entra per perfezionarsi, come in famiglia. A Niguarda la casa era molto grande, e sebbene non fosse vista bene come comunità, ci mandavano tutte le ribelli, io ho fatto un’esperienza incredibile. Perché le suore, a parte il loro lavoro manuale, avevano un’attività esterna con le ragazze della parrocchia. C’era movimento.

Da Milano, dopo alti e bassi, mi hanno mandata a Como, dove ho fatto un’attività esterna: andavamo a preparare la parte liturgica del Duomo e facevamo catechismo con i bambini. Da Como sono andata a Verona. E qui c’è da fare una bella parentesi. Lì abbiamo fatto scuola: assistenza sociale. Andavamo dalle suore canossiane a prendere lezioni. Per fare questo tipo di scuola, dovevamo ripassare e riprendere un po’ gli studi e quindi abbiamo fatto, con gli operai, una scuola serale. Noi suore sembriamo gente colta invece non è vero. Noi siamo operaie, lavoriamo tutto il giorno. Pensa sette suore che tornano alle undici di sera dopo aver fatto la scuola serale. Era una rivoluzione, per i tempi. Quest’esperienza ha portato alla mia vita consacrata una ricchezza ancora più grande, perché ero a contatto con queste persone. Alcuni operai mi hanno anche poi invitata al loro matrimonio, pensa. E abbiamo fatto una proposta: far vivere quest’esperienza anche ad altre sorelle. Io sono andata Genova per far cambio con una sorella, che voleva venire a fare la scuola. Ed è stato lì a Genova che è arrivata la chiamata per la missione. È arrivata per telefono: «Avevamo pensato di mandarla in Argentina.» Subito mi ha impressionata, ma allo stesso tempo era un sogno che si realizzava, per me. Ha aggiunto: «Guardi, non mi deve dire Sì adesso. Pensaci con calma.» Ma io ho subito risposto che se avessi dovuto dire sì a lei, ci avrei pensato non una settimana ma anche mesi; siccome, la chiamata arriva da Gesù Cristo, non posso dirgli di aspettare, quindi io ero disponibile. Subito. Sono poi andata in famiglia, abbiamo fatto una festa, eravamo in 150 persone e mia mamma ha detto: «Nessuno interferisca il suo cammino. Lei è felice e deve partire!»

In giro per l’America del Sud

Sono stata in Argentina per 19 anni e 9 anni in Brasile. Sono partita senza farmi aspettative o proiezioni ma con la curiosità di capire, e scoprire. E mi sono inserita subito. Inserirsi subito, non tanto tra le suore che facevano quello che facevamo anche qui, ma tre le persone. La comunità a Buenos Aires aveva tutta la parte della catechesi e della parrocchia: avevamo 120 bambini, eravamo sempre impegnate. Poi ho fatto un’esperienza bella a Rosario. Eravamo solo in otto, ma tutte per una e una per tutte, lavoravamo tanto.

E poi il Brasile. Il Brasile è completamente diverso. In Argentina mi sono trovata inserita ma in una comunità simile a quella italiana, mentre la realtà del Brasile è a sé: per la vivacità, la ricchezza, l’allegria, il ruolo primario della donna. La figura della suora è ben vista e la comunità è nata da subito con le persone, partendo da sole tre suore. Loro tengono molto alla liturgia e fanno sempre festa. Poi, esteriorizzano molto senza voler far vedere la loro povertà. Noi siamo sempre e solo abituati a vedere la loro miseria, ma hanno delle fonti di ricchezza incredibili e superiori alle nostre.

Andare in missione, per me, significa non andare per portare ma andare per ricevere. La parte umana che io ho scoperto, che ho valorizzato là e che valorizzo qua con tutte le mani che ho e come posso, l’ho scoperta laggiù. Bisogna avere la capacità di accogliere quello che loro danno. Io cosa porto? Me stessa? Io sono una religiosa e porto il Signore: non vado là per curare tutti i mali del mondo. Io posso solo aiutare, perché com’è espresso l’amore di Dio? Facendo l’opera. Ed è per questo motivo che quando mi hanno chiesto di tornare, passare dal Brasile alla comunità di Rivalba, ho detto sì. Mi sono detta, sono qua con la missione avviata e mi richiamano per andare a lavare e asciugare piatti e forchette? È stato difficile ma ho pensato: “Se ho detto sì prima, ora non posso dire di no.” E che faccio? Mi porto dietro tutto quello che ho imparato da là. E l’ho portato qui.

Pubblicato da Grandi Storielle

Siamo sei ragazze, Carola, Celia, Hannah, Livia, Morena e Sara che si sono conosciute in Erasmus a Chambéry e hanno ora deciso di mettere a disposizione la loro piccola ma grande arte per tutti.

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