La grande storiella di Elisabetta

Sono Elisabetta Livrieri e la mia grande storiella è essere diventata un’infermiera a 22 anni. Ho scelto questo percorso principalmente per vicissitudini famigliari. Non era la mia prima scelta, me ne sono innamorata strada facendo. Sono sempre stata a contatto con l’ambiente ospedaliero per mia sorella, per una fibrosa cistica trapiantata 12 anni fa. La nostra casa è sempre stata l’ospedale, vedevo i medici e gli infermieri come degli eroi: un po’ perché erano sempre a casa e poi, perché, ero piccola ed ero molto suggestionata. Così ho sempre detto che da grande avrei voluto curare le persone.

Ma non è affatto semplice. Il percorso inizia ad essere difficile già nella parte accademica, che sono tre anni tosti, dove cercano di mettere tante cose insieme: studio, tirocini ed esami ed è difficile starci dietro. Ogni università è diversa, ci sono diverse tipologie di tirocini. Io ho avuto la fortuna di farne di molto belli, che mi hanno insegnato tante cose e me ne sono innamorata piano piano. Capisci se essere portato o meno già dal primo anno, perché hai a che fare con le persone, con la vita degli altri è complesso, e poi è un lavoro in cui sono gli stessi infermieri a dirti “Pensaci bene…” E senti fin da subito una sorta di sconforto totale, nonostante siano completamente innamorati del lavoro che fanno. Il problema non è il lavoro in sé, ma le modalità in cui si lavora e le cose che non funzionano. Devi pensare che gli studenti arrivano con un’idea, e poi c’è un primo terrorismo psicologico, per cui chi arriva alla fine del percorso sa di aver preso una decisione importante. Nel frattempo, ci sono i vari esami da passare, soprattutto quelli di blocco, poi passare tutti i tirocini, con contesti talvolta difficili. Può quindi anche capitare un tirocinio che vada male e perdi molto tempo e opportunità, questo è un punto molto critico, secondo me, della nostra università. E non si fa molto per aiutarti. Io ho avuto la fortuna di fare tirocini molto belli, dalla cardiologia alla medicina per intensità di cuore al Giovanni Bosco e poi sono stata catapultata nel periodo Covid.

È stata una batosta. Devi pensare che gli infermieri che erano in prima linea, non potevano occuparsi di tante cose, e quindi tutto il discorso tamponi e vaccini è stato molto caricato a noi. Devi pensare che uno studente che arriva per imparare ancora molte cose, in primis la relazione con il paziente, è catapultato a fare tamponi, in un contesto che nessuno conosce a fondo. Ho vissuto questa parte e non mi è andata per niente giù: non è tempo sprecato, ma tempo in cui sai che gli studenti degli anni prima hanno potuto fare esperienze in più rispetto a te. Molte cose non sono state fatte proprio per il discorso Covid: non sapevano come proteggerci, perché non avevano ancora nemmeno loro gli strumenti, molti di noi erano sui camper, o in hotel, a fare i vaccini. Siamo stati un po’ sfruttati, ecco, questo lo posso dire. Io ho fatto questa esperienza al terzo anno, e ho passato due mesi a fare vaccini, e a prendermi anche un po’ di cattiveria, in quel periodo. Hanno cercato di gestirla il meglio possibile, è stato difficile per tutti, anche per loro. Per fare un esempio, anche all’università ci sono degli infermieri e molti dei nostri insegnanti si sono ammalati, stati male, con lezioni fatte a distanza. Immagine imparare e capire concetti a distanza per un lavoro così pratico come il nostro. Noi eravamo al terzo anno, ed era ancora gestibile ma prova ad immaginare le matricole del primo anno, a cui è stato insegnato fare un prelievo a distanza, in DAD. È fuori di testa se ci pensi e molti ragazzi hanno avuto dei problemi e molti hanno mollato: c’è stata un’incredibile riduzione di accessi universitari nell’ambito.

Tornare a casa senza sentirsi a casa

La parte che mi ha mandato più in crisi era l’idea di tornare a casa dopo il tirocinio. Tra la fine della prima ondata e la seconda, ero in medicina di urgenza e c’erano continuamente casi di persone che il giorno prima erano negative e si positivizzavano, nel frattempo li ventilavi, spargendo il Covid ovunque, ed eravamo poco attrezzati. Erano gli inizi, mancavano le mascherine, guanti, tutto. Io ero terrorizzata a tornare a casa: non potevo avvicinarmi a mia sorella. Non vedevo l’ora di fare il vaccino, io avrei fatto qualsiasi cosa pur di non portare a casa niente. Inoltre, mia sorella è stata male, è dovuta ritornare in ospedale… Dopo medicina di urgenza ho fatto terapia intensiva Covid, e quindi avevo una paura folle, ma anche per i miei stessi genitori. Loro lavoravano, erano a contatto con mia sorella, quindi anche solo la paura di passare qualcosa a loro, non ancora vaccinati, e con la possibilità di passarlo a mia sorella immunodepressa mi terrorizzava.

Rinascere in terapia sub-intensiva

Ho poi avuto la fortuna di andare in una terapia che definirei sub-intensiva, ho visto in realtà una cosa bella, avevo a che fare con pazienti, che non erano più intubati ma sub-critici. E li vedevamo estubati, tracheostomizzati, per poi tornare in piedi. Questa è stata la parte più bella, devo ringraziare quello che ho fatto, mi ha permesso di vedere la parte più del mio lavoro. Ero con professionisti stanchi, eravamo solo all’inizio dei vaccini e mi ricordo che mi dicevano: “Se fosse arrivata due settimane fa, avresti visto solo morti”. Invece ho visto la bellezza della riabilitazione. Ho visto professionisti incredibili che facevano i turni in terapia intensiva, quando staccavano andavano  fare i vaccini, e nonostante tutta la stanchezza, avevano la gioia negli occhi nel pensare a dove fossimo arrivati, a vedere i pazienti per mesi intubati, tornare in piedi. Questa è stata aa cosa più belle di tutte. C’è sempre stata la paura, ma poi non si vedeva l’ora di aiutare. Ora lo dico così, ma quando mi è stata assegnata la terapia intensiva Covid credo di aver pianto un giorno intero. Invece, quando ho visto tutto questo, mi ha cambiato la vita. C’era una gioia nel cuore rivedere queste persone rinascere per cui anche ora mi vengono i brividi.

È stato molto difficile anche incontrare persone che ti dicevano come loro prima non credessero al Covid, o addirittura che fosse colpa nostra. Ho visto poi tante persone ricredersi, chiedere scusa. Persone che mai avrebbero pensato di andare in terapia intensiva o di toccare così da vicino la morte, per tornare a vivere da un momento all’altro e tutto questo grazie agli infermieri, anestesisti, medici, Hoss, che hanno fatto un team enorme e ne hanno pagato le conseguenze.

Il passaggio da un inizio stra-ordinario alla vita ordinaria di infermiera.

La vita dell’infermiera è complicata, vieni catapultata in un giro turnistico assurdo, di cui a volte non capisco manco più quando sia giorno o notte. Io lavoro in un privato ci sono degli orari diversi dal pubblico e  poi muta dal reparto in cui sei collocato. È abbasta difficile prendere il ritmo, il passaggio dagli studi alla pratica è enorme: ci sono grandi responsabilità. Bisogna avere bene in testa quale sia il nostro profilo di posto, il nostro codice deontologico, quelle che sono le nostre responsabilità. È stato tutto molto veloce, molti bandi anche dopo il Covid, c’era una richiesta importante di infermieri: passare così velocemente dall’essere studente a infermiere effettivo, anche se secondo me si diventa infermieri solo con il tempo, è complesso. Devi avere a che fare con la stanchezza, carico di lavoro importante e un modo di reagire e controreagire alle cose molto veloce e non sei preparato a tutto questo. Io sono andata abbastanza in crisi nei primi mesi di lavoro, devi sempre aggiornarti, studiare e imparare velocemente sul campo. E poi è cambiata anche la relazione con il paziente: rispetto al primo tirocinio è diverso. I pazienti sono cambiati, alcuni si sono fatti anche delle idee dovute alla mala informazione. E poi ci sono pratiche burocratiche che prima non c’erano, tante cose sono cambiate. Solo ora dopo un anno e mezzo di lavoro mi sento più sicura, mi sono tolta quel fantasma di essere ancora studente, si fa piano piano. Ci vuole tempo per entrare in questo grande mondo per poi capire che ci sono anche cose che non vanno, come anche in altri contesti. Arrivando dalla pandemia, sono crollate tante cose che hanno fatto vedere tanti buchi, che durante la pandemia sono diventati crateri, e dove si è fatto ben poco per migliorare la situazione. In questo periodo storico c’è un po’ di strascico di insoddisfazione e ripresa da un periodo complesso, che ha visto burnout di sanitari e infermieri. Si deve imparare dagli errori, sperando che vada sempre migliorando e non si torni più indietro.

Perché fare tutto questo?

Le soddisfazioni più grandi alla fine me le danno gli stessi esseri umani. Ti rendi conto di tutte le vite e delle anime che tocchi (si emoziona) ti rendi conto che ogni giorno hai a che fare con persone che hanno un vissuto, un dolore interno, magari dovuto ad una malattia, e tu rientri a far parte della loro vita. Quando ti ringraziano, abbiamo avuto un sacco di pazienti che sono tornati dopo la terapia intensiva e ti sono grati per quello che stai facendo, anche solo un sorriso, è la motivazione che mi fa ricredere negli esseri umani e mi fa pensare quanto siamo unici e rari e questa è la bellezza intrinseca. Nel momento della malattia diventiamo tutti un po’ più deboli, la salute tocca tutti ed è una cosa molto intima. Vedere l’intimità di una persona, vederla in un momento di sofferenza, vederla rialzarsi con il tuo aiuto, è la cosa più bella del mondo. Ringrazio nella sfortuna di aver avuto un passato così difficile con mio sorella, mi fa ricordare tutti i giorni perché lo faccio.

Pubblicato da Grandi Storielle

Siamo sei ragazze, Carola, Celia, Hannah, Livia, Morena e Sara che si sono conosciute in Erasmus a Chambéry e hanno ora deciso di mettere a disposizione la loro piccola ma grande arte per tutti.

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