Sono Fabrizia, ho 35 anni e la mia grande storiella è legata alla mia professione. Sono una psicologa e psicoterapeuta. L’incipit della mia grande storiella vorrei che toccasse il come io ci sia arrivata, perché mi rendo conto che spesso si possa creare un po’ di confusione nella mente delle persone, rispetto a chi faccia cosa; quindi, vorrei sgomberare un po’ il campo dai dubbi.
L’inizio della salita
Ho studiato all’università, facoltà di psicologia, per cinque anni. Sia la laurea triennale e sia quella magistrale hanno previsto un percorso di tirocinio: più breve in triennale, più corposo in magistrale. Una volta laureata, ho affrontato un anno di tirocinio post-laurea, un tempo era definito come le “1000 ore di tirocinio post-laurea”. Al termine delle quali, ho potuto iscrivermi all’esame di stato e prendere il primo titolo di psicologa. Non paga di questi primi 5 anni +1, ho voluto completare il quadro, iscrivendomi alla scuola di specializzazione in psicoterapia, che mi ha permesso di investire altri cinque anni della mia vita in un percorso di formazione sicuramente faticoso ma anche molto arricchente: è stata la prima occasione in cui, finalmente, ho messo mano a quella che è l’attività lavorativa dello psicoterapeuta. Si comincia ad avere i primi pazienti in autonomia, ovviamente accompagnata da un tutor di riferimento. Si fanno così i primi passi da soli, iniziando a capire se sia un lavoro tagliato per sé stessi o meno. Ho avuto la fortuna di fare dei percorsi di formazione di tirocinio, e poi lavorativi, che mi hanno lasciato una preziosa impronta. Per quasi cinque anni, inoltre, ho prestato servizio come psicologa e psicoterapeuta in un ambulatorio di psicologia dell’età evolutiva, che possiamo definire il fratello minore degli ambulatori di neuropsichiatria infantile. Infine, ho terminato la scuola di specializzazione con un tirocinio in oncologia, con delle pazienti affette dal tumore al seno. Sono state esperienze incredibili, per motivi diversi: la prima, per il lavoro con bambini e adolescenti che considero sempre prezioso, perché insegna le basi del lavoro, ad essere flessibili, attenti nell’osservazione e nello stare nello stesso piano del paziente: ci si cala al pari di chi abbiamo davanti. Il secondo percorso mi ha dato modo di avere uno sguardo su cosa succeda quando si fronteggia un evento di vita, come la malattia e, potenzialmente, la morte. Sono molto grata per entrambe le esperienze.
La cima della salita
Ad oggi, un po’ per caso, fortuna e una mia ricerca, mi trovo a Trieste, dove lavoro in una comunità educativa riabilitativa per minorenni. È un lavoro che ho scoperto essere, a volte, un po’ snobbato dai colleghi psicologi e psicoterapeuti. È un lavoro che ci fa stare molto vicini ai ragazzi, alle loro problematiche, alle loro crisi, al loro essere richiedenti. È un po’ come vivere 6 giorni su 7 con i pazienti e trovo che sia un contesto molto arricchente: sia per la possibilità di osservare le dinamiche che spesso scatenano il malessere o che sono invece generate dal malessere dei ragazzi; sia per la possibilità di intervenire nell’immediato, di poter davvero lasciare un segno laddove ce ne sia bisogno. E spesso quello che richiedono i ragazzi, che sono ospiti in strutture come queste, è proprio quello di essere immediatamente riconosciuti nel loro star male e immediatamente compresi, dando loro, se non sempre una cura, almeno una parola che li possa aiutare. Spesso quello che genera tanto sofferenza è proprio il non comprendere quello che stia accadendo “dentro”. A proposito di grandi storielle: sono tutti ragazzi che arrivano con delle grandi, grandi storielle, ognuna diversa dall’altra.
I ragazzi che stanno affrontando la loro salita
Nella struttura in cui lavoro, ospitiamo ragazzi che arrivano principalmente da due tipi di percorsi. Il primo è quello giudiziario, dove il giudice ha ritenuto che il minore dovesse essere collocato in comunità. Alcuni arrivano da una storia di delinquenza, quindi di atti contro la legge, mentre altri arrivano da situazioni famigliari e socio-ambientali molto critiche e difficili. C’è poi una piccola percentuale di ragazzi che richiede di essere spontaneamente allontanata dalla famiglia o dal nucleo abitativo in cui si trova, per poi essere collocata in comunità. Ritengo che questo richieda un livello di elaborazione e coraggio che non sempre i ragazzi ancora piccoli possono avere. La loro è innanzitutto una richiesta di protezione, soprattutto quando arrivano da esperienze poco adeguate alla loro età.
Il tipo di struttura in cui sto lavorando ospita ragazzi dai 13-14 anni fino ai 18. Questo perché, solitamente, le strutture che si occupano di minori pre-adolescenti, o che stanno ancora attraversando l’infanzia, sono le case-famiglia o gruppi appartamento, o ancora affidi eterofamigliari. Al capo opposto di questa spanna di età, è possibile che ragazzi che hanno compiuto 18 anni scelgano di proseguire il loro percorso di collocamento in comunità con quello che viene definito proseguo amministrativo: il ragazzo, ormai maggiorenne, firma una sorta di contratto con i servizi che si occupano di lui, sanitari e sociali, e prosegue fino a quello che è un massimo di 21 anni di età. Gli si garantisce in questo modo la possibilità di completare un percorso che spesso non è finito al compimento dei 18 anni. Portare avanti ancora per un pezzo le psicoterapie che vengono garantite in struttura permette, inoltre, di dar modo e tempo di trovare un lavoro, mettere da parte dei soldi ed uscire con degli strumenti per l’autonomia e l’indipendenza.
In alcuni casi, la fretta di uscire e di essere indipendenti è tanta e a volte i percorsi si concludono; altre volte, invece, si decide di continuare, e quella è la parte bella. Ci si rende conto di quanto la relazione terapeutica abbia permesso ai ragazzi di crearsi degli strumenti e dei pensieri, di scegliere di aderire a dei modelli che sono diversi da quelli da cui loro arrivano. Penso a quante volte ci si scontri su quelli che sono i loro modelli a livello musicalE e su come loro pensino che la vita possa essere gestita: soldi, ragazze, macchine… Ma quando poi, vengono riportati alla realtà, si rendono conto della discrepanza tra il loro desiderio e sul come ottenerlo. È quello che voglio veramente o rischio di mettermi in pericolo? È davvero desiderabile oppure no?
Una nuova dipendenza
La struttura in cui lavoro permette ai ragazzi di avere una giornata molto scandita e organizzata. Proponiamo loro laboratori di diverso tipo, che siano creativi, didattici o più effettivamente terapeutici, consentendo loro di lavorare sia nelle dinamiche del gruppo ma anche di dinamiche personali nel gruppo. La giornata è scandita anche dal punto di vista della tecnologia. Alcuni ragazzi arrivano da percorso un po’ faticoso a livello giudiziario e tanti, uso quest’espressione, “pasticciano” un po’ con la tecnologia. Anche quando molto piccoli, vengono coinvolti in situazioni poco chiare, sia a livello finanziario-economico e sia a livello della loro incolumità personale. Quando il ragazzo entra in comunità, per un periodo di tempo, che si aggira intorno al mese, non ha accesso al suo telefono personale. Stiamo comunque parlando di una comunità che ha anche carattere riabilitativo. Il riavvicinamento comincia laddove il ragazzo riesce a conquistare una solidità ed una serenità rispetto a delle sue questioni personali. Si decide insieme, di settimana in settimana, in equipe, quanto concedere e se farli riavvicinare al telefono, monitorati o non monitorati. Vedo che questa cosa del monitoraggio non è mai troppo sofferta, proprio come se alla fine i ragazzi si godessero il fatto di essere guardati, di avere un adulto che ha un occhio un po’ di cura su di loro.
Questa è una cosa positiva e che non mi sarei aspettata. È una cosa pensata insieme a loro, tarata su di loro e condivisa con ragioni logiche che non riguardano la punizione o un premio. Anche perché spesso capita, e sono loro ad accorgersene, magari quando c’è un eccesso di fiducia da parte degli operatori e si dà loro in mano un telefono troppo presto, della facilità nel ricadere negli stessi “pasticci” e a scontrarsi con la realtà, dove sono ancora ragazzi giovani che hanno bisogno di imparare. Spesso quando arrivano sono molto: “So tutto io, della vita, del mondo…” Poi, pian piano, l’esperienza di comunità serve loro per decostruire un po’ quella facciata da gradassi, e farli tornare ragazzi, ragazzini.
Una delle dipendenze nuove, o di cui comunque non si parla abbastanza, sono quelle da schermo. Cosa sono esattamente?
Quando si dice “dipendenza” significa che condivide con tutte le altre dipendenze che conosciamo, che siano le tossico dipendenze o quelle da alcol, da gioco, da cibo, un funzionamento di base che è quello di divorare un elemento esterno, per riempire qualcosa che manca al proprio interno. Come funziona per il cibo o per le sostanze stupefacenti succede, esattamente nello stesso modo, per i dispostivi digitali. Si tratta di ragazzi che passano lunghissimi momenti delle loro giornate davanti ad uno schermo, che sia un televisore o pc o schermo, e che come le altre dipendenze, quando vien tolto loro quell’elemento di cui sono dipendenti, mostrano il lato di discontrollo della propria emotività. Laddove mi togli la sostanza che in quel momento mi sta dando piacere, che mi permette di rilasciare le mie endorfine, succedono cose che possono essere potenzialmente pericolose: come aggressione ai genitori, aggressione agli oggetti o violenza in generale. Questo funziona non solo per schermi che trasmettono videogiochi o film ma anche per quegli schermi che trasmettono un contatto con il mondo esterno. Penso ai social network, dove poi diventa difficile capire quale sia il limite tra me e l’altro: si accettano tutte le richieste di amicizia, si parla con chiunque, si condividono informazioni con chiunque. Al tempo stesso sono un mezzo, mi permetto di dire, pericoloso se non si sa come usarlo. Non è solo il rischio di essere invaso da tutta una serie di attenzioni e commenti ma, quello di poterlo fare, a mia volta. Quindi ci sono casi in cui il ragazzo o la ragazza cammina su dei crinali, dove l’attenzione spasmodica verso una persona rischia di diventare facilmente stalking. Questa è una delle cose di cui proviamo a prenderci cura.
Ripensare alla salita corsa
Ammetto che quando sono venuta a Trieste, per tre giorni, come osservatrice, per vedere come fosse il lavoro in comunità, ero molto incuriosita e desiderosa di lanciarmi in questo contesto, ma allo stesso tempo ero molto spaventata. Sentivo che dentro di me c’erano degli aspetti che erano ancora un po’ da far maturare. Mi sono resa conto che permettendomi di mettermi in gioco, quegli aspetti sono maturati: aspetti di assertività, di fare quello che dico e di sentire che quello che dico è proprio la cosa giusta in quel momento. E quando quella cosa si sente autenticamente, anche i ragazzi la sentono. Sentono che dici e fai in quel modo per il loro bene e non come semplice imposizione. E poi, la cosa che mi spaventava e che penso spaventi un po’ tanti colleghi, è la questione del contatto fisico con i ragazzi. Dal contatto fisico di tenerezza, dove c’è la coccola o l’abbraccio, fino ad arrivare, a volte, allo scontro. In momenti di grande crisi, ci si trova al lancio di armadi, divani e tutto può capitare. E quei momenti lì, che prima mi spaventavano, in poco tempo sono diventati momenti dove viene fuori una parte di me che non conoscevo, prima di entrare in comunità. Mi accorgo che sono la prima che si lancia in mezzo, cercando quasi di rendere la situazione un momento di gioco, cercando di riportare i toni dove è giusto che siano: è giusto che si sfoghino ma è poi anche giusto ritornare dentro i limiti giusti.
Come è stato per le altre esperienze sono grata anche per questa e spero di poter maturare ancora tanto e far germogliare altre cose dentro di me.