La grande storiella di Etta Matters

In ogni intervista voglio raccontare una grande storiella di giovani, che stanno costruendo il proprio sogno. Dopo aver indagato l’artehttps://grandistorielle.com/2020/11/17/la-grande-storiella-di-fiori-di-mandorlo/ , e il mondo dei viaggihttps://grandistorielle.com/2020/12/08/la-grande-storiella-di-una-viaggiatrice-autentica/ , entriamo ora in quello della musica. Ma proprio mentre stavamo per incominciare la nostra intervista arriva una chiamata importante. Ma non vi svelo ancora nulla; andiamo con ordine e partiamo dalle origini con Emanuele Cotto, in arte Etta Matters.


Non essendo una scelta scontata, ti chiederei come ti sia venuto in mente di fare il producer. Per il mondo della musica, si pensa di più alla figura del cantante o del deejay e invece perché proprio il produttore musicale?
Mi fa strano pensare adesso a come le cose si siano sviluppate. La vera idea infatti, all’inizio, era proprio quella di fare il deejay. Mi sentivo un po’ il capo del mondo, avevo sicuramente un’autostima molto più alta di quella che ho adesso. Andavo a ballare e mi dicevo: ‘‘Ma sai che sta roba qua potrei farla meglio…’’ Così, tra i 15 e i 16 anni, sono entrato in quel mondo e ho iniziato a capire alcune dinamiche che mi hanno proprio spinto a fare il deejay. Ora mi metto un cartellino qui, si indica il petto ridendo, ‘‘Ora faccio il deejay.’’ A quel punto, però, quando mettevo un pezzo degli altri, iniziavo a pensare a come lo avrei modificato, come lo avrei, magari, migliorato, affinché suonasse e desse un effetto del tutto diverso. E allora mi sono informato su come funzionassero le modifiche ai pezzi, e ho iniziato, in modo molto molto lato, a fare delle piccole produzioni, per le quali, quando le ascolto ora, mi prendo in giro. A quel tempo ero gasatissimo, le pubblicizzavo in giro, ma in realtà ci ho messo un po’ a fare le prime cose di cui andare fiero.


E ti ricordi la prima volta?
La prima volta in un club avvenne in pieno inverno, a gennaio, al Centralino, a Torino. Stavo malissimo: avevo mal di pancia dall’ansia, ma era andata veramente bene. E questo mi aveva gasato molto e mi sentivo già conosciuto ma in realtà la vera competizione, che a Torino è a un livello veramente altissimo penso a Gabry Ponte, o Gigi D’Agostino, o Eiffel 65, non la conoscevo per nulla. E c’è sempre stato questo grande divario tra la competizione molto alta e quella che potremmo definire più amatoriale. Ecco, in quest’ultima io andavo alla grande. Io mi sentivo il più bravo. Ma poi inizi a conoscere, a vedere la musica a Milano, a Roma, a Mantova, ad uscire dalla tua cerchia e capisci di non essere l’unico ‘‘fenomeno’’ ecco.

Etta Matters nei panni del deejay.


Quando c’è stato il passaggio da deejay a produttore?
Era poco dopo, a 17 anni ho iniziato a scaricare qualche software per provare a produrre qualcosa.


Possiamo dire che sia stata l’esigenza di mettere qualcosa di tuo, una tua prospettiva e personalizzazione al pezzo musicale che ha fatto fare questo cambiamento?
Assolutamente sì. Da deejay non puoi cambiare un pezzo e poi non avevo i mezzi e la tecnica per farlo. Però mi sono messo all’opera, ho studiato molto, ho sperimentato, cosa che continuo a fare sempre. Mi mangio tutorial ogni volta che posso. Sai quando dicono: ‘‘Stai attento che su youtube perdi tempo perché ti escono i vari video suggeriti ed entri in un loop da cui non riesci piu ad uscire?’’ Ecco io non vedo l’ora di entrarci, perché è proprio quel tempo che mi insegna.


E mentre provavi a produrre quei primi pezzi che tu definisci ‘ascoltabili’ hai anche incominciato un’universita che non c’entra assolutamente nulla con questa tua passione.
Esattamente. Ho iniziato Scienze strategiche. Ovviamente avevo provato a buttare lì l’idea di fare solo musica, ma non sono stato molto supportato. Da un lato mi chiedevo chi me lo facesse fare, ma comunque da un punto di vista culturale sono contento di aver fatto l’università e di aver studiato. Ci sono stati diversi esami che mi sono piaciuti molto, come antropologia culturale o psicologia, e ne sono uscito con un bel novanta e lode, come dico io, per scherzarci su.


E come concigliavi il dovere con la passione? Perché quando dico che voglio diventare giornalista, mi dicono – Ah, ma devi fare subito qualcosa- e io ho sempre detto che voglio fare le cose fatte bene, una alla volta. Però effettivamente non è facile gestire le due cose o no?
È abbastanza impossibile se vuoi che entrambe vengano bene. Ma non c’era nulla da fare, comunque la musica era troppo importante per me, era la mia strada. Studiacchiavo, e poi magari stavo in studio fino alle 2 di notte. Mi annullavo come persona per giornate intere, non guardavo il telefono, ero totalmente preso dalla musica, dalla mia musica.


Da produttore qual è stata la prima soddisfazione importante?
Allora partiamo dal presupposto che sono una di quelle persone che si gode le cose per quei quattordici secondi.


E dai facciamo almeno un minuto!
Ride, e allora dai facciamo un minuto. Ma dopo un minuto sai, voglio fare subito altro, voglio arrivare a qualcosa di diverso. Ma forse la prima grande soddisfazione è stata quando effettivamente io, avendo finito l’università e collaborando già da tempo con diversi artisti, ( ecco questa risposta l’ho lasciata esattamente come me l’ha detta, giusto per far capire che chiacchiera talmente tanto che riesce a fare digressioni più lunghe della risposta. Forse sono stata battuta. ) … e su quello devo dire che sono sempre stato bravo a fare contatti e, come ti dicevo, a baccagliare artisti, cioè quasi flirtare con loro per collaborarci. Per esempio il primo colloboratore per cui sono diventato produttore è stato Itto. Io ci ho proprio quasi flirtato online, ride, e proprio grazie a questa capacità di fare contatti stavo collaborando con dei ragazzi di Alba, e abbiamo fatto uscire il pezzo WHAT WE DO e per la prima volta sono entrato in una classifica.

What we do.


E cosa hai provato?
La vera vittoria di quel pezzo è stata far capire ai miei genitori, così come alle persone che mi stavano intorno, che non stavo scherzando, che ero serio e deciso quando parlavo di voler fare musica dal mattino alla sera.


E dopo questa prima pubblicazione è cambiato anche qualcosa con gli amici?
Sì a livello di percezione. Ho sempre avuto la paura che gli altri mi attribuissero meno di quello che effettivamente facevo, tipo sindrome del fratello minore, no? Dopo quella pubblicazione, pensavo: ‘‘Finalmente lo hanno notato tutti.’’ E poi in realtà, concretamente, non sono cambiate così tante cose a livello professionale, per molto tempo..


Beh fino a poco tempo fa direi…
Esatto, fino a due mesi fa.


E il momento più brutto e demotivante?
Per quanto riguarda la carriera e mettici le virgolette, ( ma io non le metto perché è giusto parlare di carriera ) l’inizio è stato difficile, complicato. Ero nei giri giusti, ma non avveniva molto. Sai a me piace ‘essere il più scemo della stanza’, mi piace essere in una stanza con persone che ne sanno molto piu di me. Ero un po’ il cigno nero, il brutto anatroccolo.


Ma che si trovava nel posto giusto come infatti dice quella citazione: ‘‘Se sei la persona più intelligente della stanza, sei nella stanza sbagliata.’’
Volevo avere persone da cui prendere qualcosa, da cui imparare. Facevo parte di questo gruppo, in cui vedevo che tutti erano più bravi di me, che tutti stavano iniziando a fare cose e io rimanevo fermo, anche se lavoravo tantissimo rimanevo ‘‘l’amico di quelli bravi’’.


E quest’anno, questo 2020 che ci lasciamo alle spalle com’è andato ?
Quest’anno ho sicuramente vissuto il periodo più brutto a livello personale ma ho fatto cento passi in avanti in quello lavorativo. È paradossale, lo so. Iniziando a lavorare con artisti, ti trovi a fare studio session con più persone, dove ognuno dice la propria opinione, dove si crea un clima di collaborazione, di stimoli. Questo periodo di quarantena mi ha fatto fare un gran passo indietro, tornando a fare musica da solo, come quando facevo dance, all’inizio, nella mia cameretta.


Quanto è importante il ruolo del producer nella creazione di una canzone? Anzi andiamo ancora più indietro, partiamo proprio dalla domanda base. Chi è e che cosa fa un produttore musicale?
Il produttore è lo stilista che decide come vestire un brano. Tendenzialmente adesso, a causa dell’evoluzione della musica, lo streaming e altre cose che richiedono un ritmo frenetico, la figura dell’ adattatore, così come quella dei musicisti, del fonico, del tecnico di studio, di chi masterizzava, o di chi remixava, sono tutte presenti in quella del producer. Quindi è veramente diventato uno stilista, che a tutti gli effetti dice: ‘‘Io voglio quei polsini in modo diverso, tipo di lana’’ e allora va a procurarsi il materiale e lo adatta al modello. Così io magari in un pezzo mi dico: ‘‘Ci vedo una chitarra che fa una determinata cosa’’ e devi avere tutto in testa quello che deve succedere.

Etta Matters nel suo studio


Non essendo tu un musicista, possiamo dire che quello che porti di nuovo è proprio la tua prospettiva sul pezzo in questione. Lo rendi un po’ tuo.
Il mio gusto. Sicuramente c’è una differenza tecnica tra me e chi era musicista prima di fare il produttore ma che ormai è ininfluente. E molti mi dicono che il fatto di arrivare dalla dance, per quanto limitante per alcuni aspetti, mi ha portato ad avere un certo tipo di orecchio e così riesco a proporre pezzi che possono piacere a molti, o comunque mi hanno sempre detto così. Molti mi dicono di rimanere così.


Forse perché paradossalmente la tua inesperienza tecnica su alcuni punti, fa rimanere il pezzo più originale, autentico.
Più che altro rimango semplice, con idee semplici. Esempio, per una canzone di Itto, ho registrato il rumore della pioggia e l’ho messo come sottofondo.


Arriviamo al presente, a questo bellissimo presente, cosa mi puoi dire?
Le cose per me sono cambiate da quando Esa e Deddy sono entrati nel programma di Amici. Avevo prodotto qualche loro pezzo e li ho conosciuti entrambi questo scorso anno. È stato abbastanza inaspettato, li abbiamo accompagnati al primo provino ma senza aspettative, nonostante ci fossimo comunque preparati tanto. Ho sempre creduto che entrambi avessero qualcosa che comunque anche a distanza di anni sarebbe emerso.


Parliamo di Deddy, di questo ragazzo scoperto per caso da un tuo socio, mentre suona il pianoforte al jazz club di Torino.
Sì storia pazzesca. Questo mio socio porta Deddy in studio e quando apre le note dell’iphone, vedo che aveva circa novanta canzoni tutte già scritte. Pensa che scrive da quando ha dodici anni circa. Capii subito che fosse necessario portare a fondo uno di questi pezzi, e così abbiamo fatto con FORTI E FRAGILI.


E ora parliamo invece della produzione dei brani di Esa come Eleven, Nato due volte e… Prego rispondi pure.
E niente, era Esa che lo chiamava. Sembrava quasi fatto apposta. E allora ho stappato due birre, e mi sono vista la grande storiella di Emanuele Cotto, per gli amici Meme, e per lavoro Etta Matters. L’ho vista in quella chiamata, la gioia, la soddisfazione. Non c’era quasi più bisogno di nessuna domanda, ha finito lui l’intervista, parlando del suo amico, fratello, collaboratore, Esa.
Con lui mi sono trovato benissimo. Voce pazzesca, cantava in quattro lingue, ho capito che era un’esplosione, a partire dalla sua storia, che ho incoraggiato a mettere in musica con NATO DUE VOLTE. Da produttore ho capito che dovevo prendere tutto questo casino fenomenale e farne della buona musica, e così è nato anche ELEVEN, che trovo molto emozionante con questo racconto del suo rapporto con il padre.


Parliamo del nuovo pezzo, prodotto da te, parliamo di DIMMI.
DIMMI nasce tempo fa. Volevamo creare pezzi da un minuto come contenuto su instagram, ed era il primo che scriveva interamente in italiano. Non era pensato per essere una hit, o un singolo da portare in una gara, ma come un semplice contenuto. In generale non davo indicazioni sul testo, mi occupavo dell parte musicale. In questo caso ho dato anche suggerimenti sulle pause, su quella ripetizione nel ritornello, di-dimmi. Il corpo completo del pezzo era pronto a fine quarantena, ma non ultimato. Ai primi di novembre, quando si aveva il sospetto che potesse entrare nel programma, abbiamo finito la produzione. Nelle ultime settimane, in chiamata, alla sera, mi lasciava una lista di cambiamenti da fare e il giorno dopo gli mandavo il pezzo con le correzioni, e così ci siamo messi a rifare alcune cose, come i cori, a cui hanno collaborato alcuni ragazzi di Amici, quasi tutti!

Il cantante Esa e il producer Etta Matters


Finisco con una domanda che mi ronza da un po’ nella testa. Visto che hai detto che la figura del producer è come quella dello stilista, secondo te fare il producer può essere considerata arte?
Sì. Credo ci sia molta più arte in un sacco di lavori di quella che effettivamente vediamo. C’è arte un po’ in tutto per me, anche nel movimento delle mani di un dottore. Il produttore quando sente qualcosa se lo deve disegnare in testa, come un artista. E poi pensa che io da piccolo volevo fare lo stilista!


E lo sei diventato, uno stilista musicale. Abbiamo fatto quest’intervista poco prima dell’uscita di DIMMI, che ora è su tutte le piattaforme, o, per rimanere in tema, su tutte le vetrine. Partecipate
anche a voi questa prima sfilata, che sono certa essere la prima di molte altre. Congratulazioni allo stilista musicale Etta Matters.

La grande storiella di una viaggiatrice autentica

La mia seconda intervista si rivolge ad Andrea Zana, meglio conosciuta come authentictraveland. Ho avuto modo di conoscere la sua storia durante un Brunch a la Récyclerie, posto magnifico, a Parigi. Mi ha subito colpito la sua grande storiella, forse perché abbiamo molti punti in comune: un anno di studi a Chambéry e una passione, che abbiamo entrambe adattato e fatto confluire in un blog, per condividerla con tutti!

Se la mia svolta per la creazione del blog è stato un periodo difficile con il primo lockdown, per Andrea, invece, tutto inizia, senza che lei lo sapesse ancora in…

Canada! Nella mia vita c’è stato un periodo di svolta che è stato, appunto, il mio soggiorno per ben un anno in Canada. La prima volta veramente lontana da casa. Mi affascinava, nonostante non conoscessi molto il paese. Dovevo starci sei mesi poi in realtà sono stata un anno e questo fa già capire molto. Lo stage prevedeva un lavoro come tour operator di viaggi di lusso per turisti americani che volevano visitare l’Europa. Erano viaggi personalizzati, era la mia prima esperienza professionale nel mondo del turismo e quindi mi ha appassionato ancora di più, tanto che è stato l’argomento della mia tesi di laurea triennale.

Nella tua prima esperienza lavorativa immaginavi dei road trip molto personalizzati. Possiamo dire che questa impostazione è rimasta anche per la creazione dei tuoi nuovi road trip che condividi nel blog?

È rimasto, per me, questo concetto dell’esperienzalità: i viaggi devono metterti in contatto con le persone e farti mettere in gioco. Certo, quel tipo di richiesta, cioè quella del lusso, non è la mia sfera d’interesse in questo momento, ma mi ha permesso di imparare a formulare dei road trip che avessero uno scopo, una prospettiva. Parola chiave è ESPERIENZA, come un corso di cucina di piatti tipici, tour in vespa sulle colline toscane, la scoperta di un nuovo modo di viaggiare rispetto al classico tour turistico.

Dall’ importanza dell’ esperienza in generale passiamo alla tua esperienza personale e dal Canada voliamo nel Sud Africa, tappa fondamentale per authentic traveland.

Dopo l’esperienza in Canada e la discussione della tesi, scelgo di vivere un nuovo periodo all’estero, prima di trasferirmi qui a Parigi. Avevo capito che volevo continuare a vivere all’estero, conoscere nuove culture e nuovi paesi e mettermi in gioco. Quando si va in un paese diverso si rincomincia un capitolo da zero e ci sono molte difficoltà ma grandi scoperte, pensa che io ormai stavo bene in Canada con i miei ben 19 coinquilini…

Andrea e i suoi coinquilini in Canada

Authentic Traveland è nato in Sud Africa, in un momento di solitudine. È stata infatti un’esperienza particolare. Ero spesso sola e un giorno, durante una passeggiata, (io lì ho girato ovunque da sola), mi sono detta essere proprio felice. Stavo facendo quello che mi piaceva: viaggiare, scoprire, mettermi in gioco e quindi mi sono detta di voler condividere tutto questo, con un blog. Non conoscevo nulla di quel mondo, ma ho fatto tutto nel giro di pochi giorni, ho scritto subito articoli e da lì è incominciata questa nuova avventura.

Parliamo infatti del blog, mi piace tantissimo il nome authentic traveland, tu ti definisci come un’autentica viaggiatrice. Io penso che viaggiatori si diventa, come si trova questa autenticità? Come si diventa viaggiatori autentici secondo te?

Autentico per me è sinonimo di puro, sincero. Oltre ad essere una maniera di voler viaggiare, credo sia anche uno stato d’animo che ci si pone quando si esce dalle mura di casa. Significa essere aperti, umili nel momento in cui si entra in nuova cultura e si incontra l’Altro. Autenticità sta nella maniera di viaggiare e di porsi. Nei miei video sono felice, sempre estasiata, per nulla instagrammabile, ma quello è autentico. So che è la faccia di quando viaggio e sono felice, raggiungo livelli di conoscenza di me stessa che non ho quotidianamente.

Il tuo motto quindi è la risposta: ‘‘Travel like a local, experience the destination, meet its people, be curious, discover deeply. Travel to feel strong emotions that you will remember forever. This is TravelAnd.’’

Ti volevo infatti chiedere quanto sia importante informarsi e conoscere prima di viaggiare. E, anche per entrare nel mondo dell’ecososteniblità, ti volevo chiedere come si possa trovare autenticità anche in quei viaggi dove spendi ormai solo qualche manciata di euro per andare in una città europea. Alla fine essere un authentic traveland non è così facile…

ridiamo

Non è facile essere un Authentic Traveland… Per me la parte che riguarda la conoscenza e l’informarsi fa già parte del viaggio. Io adoro le guide di viaggi, me ne mangio due o tre prima di partire e mi piace spulciare in altri blog di viaggi, per poi incrociare le informazioni al fine di creare un mio itinerario. La conoscenza è essenziale. E poi mi è venuto in mente, mentre mi facevi la domanda, che questa situazione rende il viaggio molto più difficile, ma d’altra parte te lo fa apprezzare ancora di più. Eravamo abitutati a viaggiare molto: quello che ha fatto aumentare i viaggi è stato un maggior tempo libero a disposizione, vacanza pagate, low-cost, mezzi che ti permettono di arrivare dappertutto. Forse si era un po’ persa quell’idea del viaggio come un privilegio. Pensa che solo il 15 per cento delle persone hanno già preso l’aereo nella loro vita. È essenziale tenere in considerazione che il viaggio rimane un privilegio. Io ogni volta che viaggio mi sento fortunatissima ed è per questo che voglio coinvolgere altre persone.

Sono così scioccata che te lo richiedo, 15% delle persone nel mondo?

Sì.

Lo trovo un dato pazzesco. Molte volte abbiamo una visione delle cose che mette al centro solo lo stile di vita europeo, e sbagliamo. Hai consigli per viaggiare in modo ecosostenibile per il 2021, che speriamo essere un anno più fortunato?

Il tema della sostenibilità mi ha sempre attirato molto. Anche all’università studio la possibilità di fare del turismo un fattore per la riduzione della povertà, un turismo responsabile, tema che ho infatti trattato nel magazine di marzo. Io non mi definisco una travelling influencer ma comunque nel mondo social si sente questa esigenza di sensibilizzare il tema del viaggio sempre responsabile, per evitare un turismo di massa, sostituendolo con uno stile turistico che abbia benefici per tutti.

– Viaggiare fuori stagione

– Viaggiare con uno spostamento più lungo, sia spazialmente che temporalmente, per poi aggiungere tappe, trip in quelle vicinanze.

All’Onu, per esempio, si sta parlando di fare una specie di passaporto carbone: ognuno di noi ha un tot di emissioni ogni anno per prendere l’aereo, e si discute la possibilità dell’uso di carburanti alternativi per gli aerei. Tutti stiamo diventando più consapevoli degli impatti ecologici del turismo e poi ci son i 3 aspetti da tenere in considerazione. Con turismo sostenibile non si vuole necessariamente indicare l’aspetto ecologico, ma anche quello economico: comprare locale, dormire dalla gente del posto. Al di là della possibilità d’incontrare persone nuove, credo sia in generale un arrichimento, un’esperienza diversa.

E tu lo hai fatto nel tuo ultimo viaggio.

Sì, eravamo a la Réunion, siamo stati in vari posti tra cui l’ultimo in una fattoria, in cui fanno una coltivazione di banane biologiche e ci hanno raccontato il loro lavoro, ci hanno venduto i loro prodotti ci hanno accolto con il rum alle 4 del pomeriggio.

Quindi potremmo dire una vera esperienza autentica. E il terzo aspetto e consiglio per un turismo ecosostenibile?

Esatto, e l’ultimo aspetto da tenere in considerazione è quello sociale, come attraverso il turismo si possano per esempio costruire delle scuole e migliorare le condizioni di vita del villaggio.

Per collegarmi all’ultima storiella, la decima, La notte prima, avevo trovato un tuo articolo, The power of leaving, che è poi il tema centrale della storiella e fa parte della nostra attualità. Nell’articolo dici di aver trovato ‘‘Andrea negli occhi degli stranieri’’. Volevo affrontare il tema della forza di partire e lasciare, un tema di cui si parla poco ma è attualissimo.

The power of leaving… Mi piace scrivere questi pensieri personali, che hanno un riscontro pazzesco rispetto ad altri articoli. Sono temi attuali, siamo pieni di opportunità per viaggiare ed è vero che non è facile lasciare la vita che si ha. Secondo me, è un’esperienza che deve fare chi si sente di farla, chi vuole provare, deve buttarsi. E non è necessariamente un qualcosa che deve continuare. Dipende dalla scala dei valori che ci costruiamo, molti dei miei amici di infanzia sono rimasti nel paese, sono vite diverse. Ho scritto anche un articolo per quelli che restano. Partire non vuol dire lasciare tutto quello che si ha dietro per qualcosa di nuovo, ma significa riuscire a prendersi cura di ciò che è rimasto nella tua vita di prima e portartelo dietro. Per me è molto importante e credo anche per te, trovare l’equilibrio. Ci sono tante cose da imparare, mi sento di dire di provare a chi se la sente, ma non è un obbligo dev’essere una propria sensazione e una propria esigenza.

Immagine della decima storiella, La notte prima

Sono pienamente d’accordo. Alla fine del tuo articolo, infatti, tu parli della centralità del confronto. Ed effettivamente non importa se ti riconosci negli occhi di sconosciuti stranieri o altri, l’importante è il confronto in sé. Puoi diventare viaggiatore autentico anche rimanendo a casa. E da questa chiacchierata ho capito che come in tutte le cose per diventare autentici, e quindi in questo caso viaggiatori autentici, c’è bisogno di tempo, tempo per prepararsi prima, per viaggiare ma in maniera ecosostenibile. Ci vuole tempo, e questa cosa non va tanto di moda oggi.

Hai ragione. Quando sono tornata in Italia per quest’estate ho fatto un sacco di cose nella mia zona. Un esempio su tutti, il ponte tibetano a Clavière, e molti miei amici erano scioccati, hanno sempre vissuto lì vicino e non sapevano di questa possibile esperienza. Ma tu arrivi e lo fai, quindi si può viaggiare anche rimanendo a casa e se la componente temporale è importante, abbiamo detto che ci vuole tempo, non è necessariamente legata alla componente spaziale. Questa è una cosa che abbiamo imparato ad apprezzare ancora di più quest’anno e si collega a quello che ci eravamo dette a Parigi, Authentic Travel.And è diventato per me una maniera di vivere, una maniera di impostare le giornate sotto il segno del carpe diem. Ho voglia di scoprire e ho voglia di condividere, di conoscere, senza limiti di spazio, ma lentamente. Il tempo del viaggio è un altro aspetto importante, non mi impongo dei ritmi ma mi adatto ai ritmi del posto, un altro pilastro importante del viaggiatore autentico.

Parlaci del tuo team, degli altri autentici viaggiatori!

Mimi è la prima persona a cui ho detto che volevo aprire il blog. C’è sempre stata, oltre ad essere la mia amica speciale, è la mia fonte di energia. Si occupa della parte pubblica e per me il suo parere è fondamentale.

– Paco è altra fonte di forza, è parte di tutto. Mi aiuta con la parte più tecnica e ovviamente mi aiuta anche con gli articoli.

Ceci, amica del liceo, ci siamo ritrovate qui da me a Parigi, quando ho pubblicato il primo megazine. Studia arti figurative e quindi mi aiuta per l’aspetto grafico.

Per me il team è un grande cuore.

Perché scrivi in inglese?

Bella domanda. Parlo sia italiano che in inglese perchè alcuni concetti possono essere espressi solo con una certa lingua. Ma è vero che scrivo in inglese. Ho l’impressione che i miei amici siano un po’ internazionali ora. Mi piaceva dare accesso a tutti, condividendo quello che stava succedendo nella mia vita. Ed è forse anche un challenging personale.

Io ho notato una cosa: nel blog tu scrivi TRAVEL.AND, questa sua nuova grafia rispetto alle pagine social ha un particolare significato?

Traveland è il mondo dei viaggi e And è anche l’iniziale del mio nome. And però è anche una congiunzione che vuole legare il viaggio ad altro, come esperienze di vita e lascia aperte molte strade…

C’è un AND… che vuoi ancora sviluppare?

Sì, sto lavorando ad un progetto che non ho ancora svelato, ma lo faccio qui, sarà basato sulla pubblicazione di podcast!

Questo And… ci porterà ancora molto lontano ne sono sicura, pronti a viaggiare per una strada tutta autenticacon Authentic Travel.And!

La grande storiella di Fiori di Mandorlo

Io e Claudia ci siamo conosciute a Parigi e abbiamo subito capito che qualcosa di grande, di molto grande ci accomunasse: una grandestoriella. Con lei, do inizio ad una serie di interviste a tutti quei giovani che hanno una grandestoriella da raccontare.


E la sua incomincia in un modo sorprendente, perché l’origine di tutto è una visita in un museo di Londra. Vero Claudia?
Eh sì, tutto è iniziato alla National Gallery, più precisamente nel suo bookshop, dove stavo cercando una collana con un quadro, Gli Ambasciatori di Hans Holbein, che avevo recentemente studiato per un esame all’università, il mio primo 30. Cercavo qualcosa di significativo da portare sempre con me. Ma non c’era nulla. Intanto ero tornata a casa, era passato del tempo, e continuavo a pensare a questo gioiello che avrei tanto voluto indossare. Così ho incominciato ad informarmi sul mondo dell’artigianato, anche attraverso pagine di instagram, chiedendomi: «Perché non me la posso fare da sola questa collana?» E tutto è iniziato veramente così, per gioco. Ho aperto un sito online, ho comprato delle basi, i primi materiali, e sono andata in stamperia dove ho fatto rimpicciolire l’immagine. Tra le cose strane di questo inizio c’è anche il fatto che io non abbia scelto quel quadro che volevo, ma un altro: Ramo di mandorlo in fiore di Van Gogh, che mi piaceva molto. Una volta ottenuti tutti i materiali ci ho lavorato su ed è nata questa collana. Indossando questo gioiello, amici e colleghi all’università se ne sono incuriositi e mi hanno chiesto di poterlo fare anche per loro. Non mi ricordo bene quando sono passata a pensare per gli altri oltre che a me stessa. Ho aperto la pagina instagram il primo di dicembre, che si sarebbe dovuta per forza chiamare Fiori di mandorlo.

Ma poi una collana o comunque un gioiello su Gli Ambasciatori l’hai realizzata?
No, non ancora. Conto di farla per un’occasione speciale. È un quadro enorme, e quasi nessuno se ne accorge ma c’è un teschio alla base dell’opera, posto in prospettiva. E mi piace molto, ed essendo pieno di dettagli, è complicato ruscire a metterlo in un gioiello. Ma mi inventerò qualcosa.


In generale cosa vendi?
Collane, bracciali, orecchini, segnalibri, fermagli per capelli, spille e altri accessori che possono essere indossati.

Alcune creazioni di Fiori di mandorlo


Quando vai a visitare un museo, farai sicuramente tappa fissa al suo bookshop, ecco vorrei sapere il tuo parere, perché io molte volte ne esco un po’ amareggiata.
Entriamo in un campo minato. Ci sono cose molto carine soprattutto a livello di libri, ma a livello di accessori, parlo di quelli da indossare quindi il mio ambito e riferendomi solo ai bookshop che ho avuto modo di visitare, vi è una grande carenza. E anche questo è uno dei tanti motivi per cui ho voluto poi lanciare Fiori di mandorlo.


Ho visto che su Instagram hai lanciato un hashtag #claudiarte, qual è il tuo rapporto con l’arte?
Mi è sempre piaciuta ma, con lei, non ho sempre avuto un buon rapporto. Forse anche a causa della mia professoressa di storia dell’arte che mi definiva libresca… Ma poi ti sembro libresca io? ( Ci mettiamo a ridere ) Ero più appassionata di storia e filosofia mentre la passione vera e propria per l’arte è nata dopo, all’università e quando ho finalmente iniziato a visitare i musei, a vedere quei quadri dal vero, dal vivo. Quando ho visto per la prima volta Gli Ambasciatori ho pianto. E da lì ho capito che c’era qualcosa che doveva uscire, venir fuori ed eccoci qui.


E allora parliamo dell’arte ma attraverso la tua creazione, attraverso Fiori di mandorlo.
Ecco io lo dico subito: io non faccio la collana per venderla. Io la faccio secondo l’idea di raccontare l’arte in un modo diverso. Non studio arte, non sono di questo mondo, non ho le competenze per parlare d’arte però io ci provo a modo mio, mettendoci anche la mia storia. E cerco di valorizzare il rapporto tra l’arte e la persona e la storia della persona. Propongo il mio lavoro più sull’aspetto emotivo ed empatico che sull’aspetto prettamente tecnico.


E in questo modo l’arte diventa più concreta, te la porti sempre con te e diventa anche un modo di presentarsi, indossando dell’arte. E poi volevo parlare della tua passione per Monet e dei tanti gioielli che riprendono i suoi quadri e, visto che l’ottava storiella riprende l’opera DONNA CON PARASOLE, volevo chiederti di questo quadro.
Sì faceva parte di una collezione ed è sold-out. Monet mi piace, è tra i miei preferiti. C’è una storia dietro, credo che Il ponte giapponese sia stato il primo quadro che abbia visto nella mia vita, o almeno di quella che ho ricordo. Con Monet c’è un legame dall’infanzia.

Donna con parasole, Monet


C’è un artista che ti piace molto ma che non hai ancora realizzato?
Sì, non posso per una questione di diritti di autore ma io adoro Magritte, Hopper e uno dei miei sogni sarebbe fare una collezione su Frida Kahlo.


E invece hai mai ripreso artisti italiani?
Sì, Previati e Caravaggio.


Ultimo ambito, che mi piace moltissimo. Recentemente hai fatto incontrare l’arte con la letteratura e hai lanciato un nuovo hashtag. Ed ecco a voi dopo #claudiarte la #letterarte! Parlacene un po’.

#Letterarte è la cosa di cui vado più fiera. Perché unisce i miei due mondi: li prendo e li fondo a modo mio, secondo un mio intuito. È la collezione in cui riesco ad esprimermi maggiormente. È partita l’anno scorso, con Lolita di Nabokov, uno dei miei libri preferiti in assoluto. Essendo lui un grande appassionato di farfalle, avevo trovato quest’artista, Van Schrieck, che le dipingeva. Li ho uniti ed è nata questa collezione.

Un esempio di Letterarte

Quindi vi è sempre una corrispondenza tra la parte scritta e quella figurata?
Sì, non è mai casuale. Per esempio, dopo Lolita, sono arrivate Le Lettere a Theo, dove ho unito i quadri di Van Gogh alle sue stesse parole.


Direi a questo punto di parlare del tuo slogan che l’arte riveli la tua luce.
Io vorrei che attraverso un quadro, una frase, ci si riesca ad esprimere, a trovare se stessi, a sentirsi parte di qualcosa. Arte e letteratura mi hanno aiutato tantissimo in molti momenti e sono per me un porto sicuro e questo è l’obiettivo di Fiori di mandorlo. Quello che faccio io, lo fanno in tanti e magari anche meglio, ma il mio vuole portare questo messaggio.


Potremmo dire che vuole trasmettere la sua grandestoriella, la grandestoriella che ognuno si porta dentro. Ti volevo ancora chiedere qualcosa sul futuro. Il tuo progetto, come il mio, rientra nel mondo umanistico e letterario che ha tantissime sfacettature e che può prendere diverse forme. Per me grandistorielle rimarrà un luogo dove tornare a scrivere e che mi accompagnerà per la vita. Essendo questo un progetto non legato solo alla vendita ma più ad una passione, ad un’idea che hai tu dell’arte e della letteratura, pensi che ti accompagnerà ancora per molto tempo?
Sì. Ho la speranza che possa continuare e migliorare, mi piace l’idea che possa evolversi in un qualcosa di più e possa arrivare agli artisti. E poi per me l’Italia è il paese dell’arte per eccellenza e se posso, o se potrò, mi piacerebbe far qualcosa di più grande, finalizzato anche ad aiutare chi vuole lavorare nell’ambito ed esprimersi magari attraverso i miei strumenti.


Ultima domanda, visto che si avvicina il Natale, cosa significa regalare o ricevere un gioiello di Fiori di mandorlo?
Questa è una bellissima domanda. Innanzitutto faccio ancora fatica a immaginare le persone che mettono sotto l’albero di Natale una mia creazione. Chi regala Fiori di mandorlo a Natale sta regalando un pezzo d’arte, è vero, ma soprattutto un qualcosa di bello per la persona. Un qualcosa in cui potersi riconoscere, una storia, un momento o magari un ricordo, un pezzo di vita e di bellezza. Quando le creo, io penso ad una storia, ad un messaggio. Se continuo a vendere Ramo di mandorlo in fiore in quel modello è perché è stata la mia prima collana, la collana numero zero e io non la cambierò mai. Per me è la storia, e quindi chi regala quella collana regala anche un pezzo di storia di Fiori di mandorlo.


E, per collegarmi alla prossima grandestoriella che uscirà venerdì, dove parlo di una fioreria dove chi va a comprare non sta solo prendendo un fiore ma un messaggio, penso infatti che regalando, per esempio, Ramo di mandorlo in fiore, io stia anche mandando un messaggio.
Sì, anche perché quel quadro significa nascita e rinascita.


E io aggiungo che mandi anche il messaggio di sostenere queste piccole realtà come Fiori di mandorlo, che è nato quasi quattro anni fa e ormai è sbocciato ed è per tutti voi, per tutti noi.

La grande storiella di Oriana Fallaci

Lettera a Oriana

Una presentazione veloce, le solite due righe biografiche sulla Fallaci, una citazione su Panagulis per dare un po’ di rosa all’articolo, rigorosamente in grassetto i titoli Lettera a un bambino mai nato e La rabbia e l’orgoglio e per concludere magari un bell’aforisma. Sarebbe perfetto, ci saremmo tolti il pensiero: “Anche quest’anniversario è andato, nessuno può dirci nulla, l’abbiamo ricordata.” Invece no. Non sarà un articolo anonimo, frettoloso, sterile. Sarà una lettera. Cara Oriana, sono nata nei tuoi anni di silenzio, di reclusione nel tuo appartamento di New York, quando l’alieno attaccava la tua vita e quando imperterrita continuavi a lavorare al “tuo Bambino”, una grande opera sulla storia della tua famiglia. Volevi capire, come sempre d’altronde, perché e come fossi nata, volevi capire la tua Storia, e per farlo bisogna essere un po’ delle eroine. Lo hai detto tu stessa: «Non dimenticate che ci viene sempre richiesto qualcosa di speciale in qualità di giornalisti. Coraggio e mancanza totale di timidezza, che è una caratteristica innata in ciascuno di noi. Quale uomo non è in fondo un bambino piccolo e quale donna non lo è. Ma quando dobbiamo fare questo lavoro dobbiamo essere coraggiosi se siamo corrispondenti di guerra, non dobbiamo essere timidi se andiamo a intervistare Mao Tse-tung, dobbiamo essere intelligenti anche se non abbiamo scoperto la teoria della relatività e dobbiamo capire l’anima di una persona anche se non abbiamo una laurea in psicanalisi, psichiatria o quello che è. Siamo dei ciarlatani? No, siamo degli eroi. Siamo degli eroi.»

Sei sempre stata una Penelope alla guerra, così si intitolerà il tuo primo romanzo, fin da quando alla tenera età di quattordici anni, con il nome di battaglia di Emilia, sfrecciavi con la tua bicicletta per aiutare i partigiani facendo la staffetta di città e di montagna e passando inosservata ai controlli nazifascisti con le tue innocenti trecce ancora da bambina. Ma l’animo era già da vera guerriera. Al liceo fondi un sindacato per gli studenti, US, Unione Studenti, per far sentire la tua voce. Giornalista già all’età di 17 anni per il «Mattino dell’Italia Centrale», lavori assiduamente e girovaghi con la tua bicicletta a caccia di notizie fresche: prima di cronaca nera, poi di ambito giudiziario, fino ad arrivare ai fatti di costume con quel tuo primo importante articolo, te lo ricordi?, sulle sfilate di Dior a Firenze. L’animo combattivo risorge con il licenziamento dal tuo primo giornale per quell’articolo sul comizio di Togliatti che non volevi comporre, in quanto non in linea con il tuo pensiero politico del tempo. (Le avevano infatti chiesto di scrivere un articolo satirico sul comizio di Togliatti ma lei, in quanto socialista, si rifiutò categoricamente preferendo quindi il licenziamento). E questo è solol’inizio di una lunga serie di atti di eroismo, come se una piccola Emilia fosse sempre rimasta in te.Allora non potevi sottrarti alla grande impresa, l’impresa che ti porterà a finire per sbaglio in un obitorio ed essere creduta morta dopo i massacri in Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, nel ‘68. Quell’impresa che dall’anno prima ti aveva portato a scrivere lo straziante racconto della guerra del Vietnam: l’hai vissuto per noi, per potercelo raccontare e ne uscirà un capolavoro dal nome Niente e così sia. Così come quando nel ‘60 sei partita per conoscere la condizione della donna in differenti parti del mondo, e poi hai raccolto tutta la tua testimonianza nel rivoluzionario libro Il sesso inutile. Così come quando hai vissuto nelle varie sedi della Nasa per conoscere i personaggi di quella che sarà l’impresa storica dello sbarco sulla luna. Tutto riportato per noi, nell’avvincente libro Se il sole muore. Ci hai lasciato tanto, ma così tanto con Lettera a un bambino mai nato, per non parlare di tutto quello che hai fatto, sempre in nome di quell’Impresa, con la pubblicazione di Un uomo. Ci hai lasciato tanto, ma così tanto, quando ci hai fatto ragionare sul senso della vita con Insciallah nel 1990 e con la tua ultima trilogia, con quel grido verso un occidente addormentato in pieno stile fallaciano, come piace a te. Eppure tu lo hai fatto per noi, è vero, ma anche per te stessa, perché non avresti potuto fare altro nella vita, lo hai detto anche tu: “Quando avevo cinque-sei anni non concepivo nemmeno un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Il giornalismo all’inizio per me fu un compromesso, un mezzo per arrivare alla letteratura.”

Sei scrittore, prima che giornalista. Guai a definirti scrittrice. Te lo sei anche fatto incidere sulla lapide: ORIANA FALLACI, SCRITTORE. Vivevi quello che scrivevi e vivevi per quello che scrivevi. Su ogni esperienza professionale lasciavi brandelli di anima. Ogni intervista, ogni avvenimento, ogni racconto diventava un fatto personale. Il centro dell’intervista eri tu, tu personalmente. Arrivavi con mille rabbie e dubbi e volevi risposte, le esigevi come chiunque si ritenga giornalista dovrebbe fare. Anzi dovrebbe essere. Ed ecco quindi la grande Impresa: scrivere la storia nel suo divenire e da testimone diretto. Io ti ammiro come giornalista e in quanto giornalista come scrittore. Il tuo è un giornalismo affascinante, estremamente narrativo, letterario. Ma c’è un elemento che lo rende unico, inimitabile eppure professabile come modello: era soggettivo. Il centro eri tu, quell’articolo era irripetibile perché non era giudizio ma esperienza, non era commento ma vissuto. Vivevi per scrivere, scrivevi quello che vivevi. Un connubio, un’osmosi, un intreccio atomico, inscindibile. Roba che se ti vengono a cambiare una parola, litighi con l’uomo della tua vita, prendi le valigie e lasci la Grecia. D’altronde, chiunque farebbe così per i propri figli. All’inizio del terzo anno universitario, i miei compagni si iniziavano a chiedere quale potesse essere l’argomento della loro tesi di laurea. Io non me lo sono mai chiesto. Non mi sono neanche mai chiesta perché avessi deciso di leggere Insciallah in quarta superiore, non mi sono mai chiesta perché dalla libreria uscissi sempre con un tuo libro. Io non mi sono mai dovuta porre alcun tipo di domanda, di problema: sei sempre stata tu a venire da me. Io non ti ho mai cercata, giuro. Anche perché non fa bene, non ti migliora la giornata. Ti tira dei cazzotti al fegato da far uscir fuori tutta la bile. È feroce quanto seducente. E se non è giornalismo questo, mi chiedo cosa lo sia. Ma sento il dovere di parlare di te, dei tuoi figli. Sento che lo debba fare come se fosse un dovere civile, un wake up al giornalismo di oggi, sento di doverlo fare per principio. Ed è scomodo, lo so. È scomodo perché nessuno ne vuole più parlare, veramente. Sei diventata un mito e un mostro. Ora ti si odia o ti si ama, e si decide in maniera manichea ma senza conoscerti veramente. Eroina o fanatica. Da che parte stai? Ma le hanno lette le interviste con la storia? Le hanno lette le interviste con il potere? Ti innalzano e glorificano come l’autrice italiana più letta al mondo, che non aveva paura davanti ai potenti, colei che amava andare controcorrente ma da sola e poi non si fa nulla per la sua memoria? Per i suoi figli? Basta solo utilizzarla nei talk show nei palinsesti pomeridiani, quando non si sa più chi citare a sproposito quando si parla di terrorismo? Lo dico chiaro e tondo, io non ci sto. Io voglio parlare di te come giornalista e quindi come scrittore, voglio leggere ogni singola riga scritta e studiata e accudita con un labor limae inimmaginabile. Io voglio sapere, voglio conoscere di più e voglio scrivere, ho tanta voglia di scrivere. Ho una voglia matta e instancabile di risorgere quel tuo modello e farlo mio. E quindi insisterò fino a quando qualcuno capisca che lo faccio soprattutto per TE. Per dirti ancora una volta, GRAZIE.

Oriana e Pasolini

Oggi non parlerei molto di Oriana Fallaci, lei non me ne vorrà, perché sa perfettamente che oggi si può solo parlare di lui, del suo amico.

Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce. V’era una dolcezza femminea in te, una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti di un uomo: secchi, feroci. Sì, esisteva una nascosta ferocia sui tuoi zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una crudeltà clandestina.

L’intera vita di Pasolini potrebbe considerarsi come la sua opera più riuscita, e si tratta inevitabilmente di una sorprendente, provocatoria e fragile tragedia. Dal 1963 in poi, potremmo suddividere la vita di Pasolini in due parti: la prima rivendica la denuncia, la resistenza al potere, la voglia di buttarsi nella lotta in difesa della sua Italietta, potremmo quindi dire essere una prima parte costruttiva; poi arriva l’estate del 1971, e vi è un crollo di certezze. Tutto ormai è omologato, non serve più combattere. Con un processo di decostituzione della sua opera, che è la vita, Pasolini si ripiega su di sé, con nuove poesie e l’inizio di un’opera frammentaria e incompiuta. Non abbandona le critiche nei confronti della società, ma sono ormai cause perse, constatazioni a posteriori di una sottomissione omologante, che da martire ha cercato di condannare fino alla fine.

Pasolini aveva creduto molto nella sua lotta, considerando l’azione come vita. Aveva girato La Rabbia, uno spaccato sulla realtà di quei tempi, presentata da differenti punti di vista sociali e geografici, con il commento talvolta poetico e talvolta severo del critico Pasolini. Aveva voluto proteggere e indagare l’Italia “dell’età del pane” con Comizi d’amore. Aveva dato parola ad un’Italia intera, con interventi di Oriana Fallaci, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti fino a quelli delle timide ragazze siciliane e dei contadini della Romagna. Pasolini guarda alla realtà come un linguaggio da decodificare, un linguaggio che inizia ad essere, però, comandato, assoggettato. In Nuova poesia in forma di rosa, si dice essere “un non addetto ai lavori” della nascita di questo nuovo corso della storia. Si rende conto che tutto stia cambiando, e si rende conto che stesse scomparendo l’idea dell’uomo: « Piansi a quell’immagine che in anticipo sui secoli vedevo scomparire dal nostro mondo.» Pasolini sente tutta la sua impotenza in un’ondata di Potere, che ingloba tutte le individualità, facendo credere loro di elevarle ad un nuovo modello di libertà, che diventerà, invece, per loro, la nuova e moderna prigionia. C’è però ancora un tentativo, e ne parla nello “stesso petalo” della rosa, definita da lui come vana, che è un ritorno al passato. Per dire addio a questa figura dell’uomo: «Adoperai cursus del Vecchio Testamento, calchi neo-novecenteschi, e profetai, profetai una nuova Preistoria.» Ecco allora Pasolini che si immerge nella letteratura antica con Edipo Re e Medea ma prima ancora Nel Vangelo secondo Matteo.

Però ciò che mi dicesti su Gesù e su san Francesco,(…) mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho usato nel libro che non hai voluto leggere. L’ho messo in bocca al bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: “Non è vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto. Tu sei fatta d’amore. Ma è sufficiente credere all’amore se non si crede alla vita?”

E si sente questo suo bisogno, si sente una ricerca di vitalità nella trilogia, che non a caso è proprio definita Trilogia della vita, nei primi anni ‘70. Rifugiandosi nelle storie conosciute da Boccaccio, alle Mille e una notte fino a Chaucer, si cerca una via di fuga dal potere omologante, si cerca di provocare, di far ridere, far riflettere, di vivere come in un sogno. Ma è proprio durante la realizzazione della Trilogia della vita che la vera opera di Pasolini, vale a dire la sua stessa vita, inizia a cambiare. Sembra esserci un punto di non ritorno quando nell’estate del 1971 Ninetto Davoli, attore, collaboratore e amico di Pasolini, si fidanza e decide di sposarsi. Ninetto Davoli è la personificazione dell’Italietta, della spontaneità della vita, dell’innocenza del mondo paleocapitalistico, era l’amore platonico e ideale per Pasolini. Nonostante tutta la realtà si stesse omologando, la vera e propria dimostrazione di quanto già da tempo Pasolini analizzava e denunciava si è concretizzata realisticamente solo con l’abbandono di Ninetto. «Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno.» Si arriva quindi alla parte decostruttiva dell’opera di Pasolini. Ci si avvicina alla tragedia:

Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù: giocare a calcio, per esempio, con i ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti: “Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!”.

Le poesie dell’Hobby del sonetto assumono un vero e proprio valore intimistico. La vita e la poesia sono ormai indissolubili nella grande opera della vita di Pasolini: il ripiegamento su di sé porta ad un duro sfogo della sua situazione emotiva, segnata dall’abbandono e dalla disperazione. Pasolini crede di essersi svegliato come da un sogno, e di realizzare veramente la dura realtà. Nonostante il dolore, il suo viaggio per la vita continua, rifugiandosi in quello che sapeva fare meglio: scrivere. Non si fa piegare dal Potere, neanche questa volta, cercando continue strade di liberazione dal suo comando, fino ad arrivare alla più grande vittoria. Potrebbe sembrare una sconfitta, ma quello che lui fa il 15 giugno del 1975 è un vero e proprio atto eroico contro quello che lui definisce il regime fascista, vale a dire la società dei consumi: l’abiura della Trilogia della vita. È ormai solo, apocalittico e corsaro, ripensa a sé e alla sua vita, ed essendo questa un’opera d’arte, la scrive. Con Petrolio, Pasolini parla di sé attraverso la figura di Carlo. Il testo è destrutturato in diversi appunti di vita, di pensieri e di scenari. L’esperienza della scrittura diventa esperienza di vita e non più di vitalità. Una vita della quale vorrebbe liberarsi, come afferma nell’appunto 99, idea che viene ripresa parlando di questa sua ultima opera come di un testamento. La morte lo affascina, Oriana Fallaci dirà addirittura che lui fosse innamorato della morte. D’altronde se rimaneva sempre valido il suo pensiero per cui: «La morte non è più nel non poter comunicare ma nel non essere compresi», il fascino per essa diventava ora totale. La risposta è tanto poetica quanto pragmatica: la nostra vita, in quanto mortale, deve diventare un’opera d’arte e quindi immortale. È vero, un’opera può essere conservata, al contrario della vita. Essa infatti non si può modellare all’infinito, ma come afferma lo stesso Pasolini, dev’essere pensata attraverso il filtro del montaggio cinematografico e considerando il taglio del montaggio come la morte. Però la vita può essere continuamente modificata fino a quando è vissuta: ci possono essere cambi di scena, di personaggi, ribaltamenti nella trama. L’invito è quello di vivere al massimo e al meglio, di fare un capolavoro cinematografico. E allora, non si potrà avere la certezza che essa sia immortale, ma si saprà che avrà, sempre dentro di sé, una grande potenzialità di immortalità, una grande potenzialità di salvezza per l’eternità. Pasolini, con la sua grande opera d’arte, è sopravvissuto a quel 2 novembre del 1975. È sopravvissuto alla morte dimostrandoci che l’arte e la vita come capolavoro possano essere veramente eterne. E la sua tragedia, infatti, è per sempre.

Era una bella giornata, una giornata piena di sole. Seduti al bar Tre Scalini ci mettemmo a parlare di Franco (Francisco Franco, il dittatore spagnolo, ndr) che non muore mai, e io pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che non muore mai. Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva l’Unità e disse a Pajetta: “Hanno ammazzato Pasolini”. Lo disse sorridendo, quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: “Chi? Hanno ammazzato chi?”. E il ragazzo: “Pasolini”. E io, assurdamente: “Pasolini chi?”. E il ragazzo: “Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini Pier Paolo”.

E Panagulis disse: “Non è vero”. E Miriam Mafai disse: “È uno scherzo”. Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. “È vero. L’hanno ammazzato davvero”. In mezzo alla piazza un giullare con i pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la gente rideva. “L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte”, aggiunse Miriam. —-

In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione accesa. Entrammo seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: “Ma è vero? È vero?”. E la padrona del bar chiese: “Vero cosa?”. E il giovanotto rispose: “Di Pasolini. Pasolini ammazzato”. E la padrona del bar gridò: “Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato! Gesù! Sarà una cosa politica!”.

Poi sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi (conduttore del telegiornale Rai, ndr) e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?”

Le parti in corsivo sono riprese dalla lettera scritta da Oriana Fallaci e pubblicata nella rivista L’ Europeo, in memoria di Pier Paolo Pasolini. Roma, 16 novembre 1975

Un Uomo e il suo alitaki

La folla al suo funerale lo urla: Zi, Zi, Zi! Vive, vive vive!

E così dovrebbe continuare ad esistere quella storia, la storia di un uomo raccontata da suo fratello, si definivano infatti fratelli, dal suo alitaki, che in greco significa “ragazzino”, dal suo Uomo, secondo la definizione che è lui stesso a dare alla fine della loro prima intervista.

«Alekos, cosa significa essere un uomo?»

«Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cos’è un uomo?»

«Direi che un uomo è ciò che sei tu.»

L’ Uomo in questione è Alessandro Panagulis, protagonista dell’omonima opera scritta dal suo alitaki, da suo fratello, dalla sua compagna di vita, Oriana Fallaci. Colei che facendo l’unica cosa che sapeva fare, cioè scrivere, come diceva lei, raccontava la Storia di un Uomo, eternizzandola per sempre. Oriana ha sempre considerato le sue opere scritte come fossero suoi figli. Mi piace pensare che l’opera Un uomo sia il figlio che non hanno mai avuto, quel figlio che ha evidentemente i tratti del padre ma anche le sembianze della madre.

D’altronde, quando Oriana era riuscita a far pubblicare il libro di poesie di Alekos, qui in Italia, con la prefazione del loro amico Pier Paolo Pasolini, e glielo aveva lasciato sul letto dove stava dormendo, dice di averglielo ritrovato tra le braccia, una volta ritornata nella camera: «Come se, invece che un libro, fosse un bambino.»

Oriana lo affermerà più volte: prima di tutto, Alekos era un poeta. «Il suo eroismo era la conseguenza del suo essere poeta, o una coerenza col suo essere poeta.» Perché era un eroe? Non la conoscete questa storia? Non mi sorprende, non mi sorprende per nulla. Sai quanti Alekos o quanti Mosé ( ribelle messicano che una volta catturato dalla polizia non confessò niente nella prigione militare, dopo gli scontri in Piazza delle tre Culture in Messico dove rimase ferita con tre colpi d’arma da fuoco anche la stessa Oriana) ci sono nel mondo di cui non si sa nulla? È la storia di un Uomo. Nell’eccezione che dice lui. Un Uomo che non si piega al regime dei colonnelli, che mette in atto, fallendo, un attentato a Papadopoulos, il dittatore del tempo, il 13 agosto 1967. È la storia di un Uomo che viene imprigionato, seviziato, condannato a morte. Un Uomo, che si ribella anche in prigione, che dopo vari tentativi di fuga riesce a scappare per poi essere tradito da chi credeva essere suo amico, tornando così in carcere. Un Uomo, che per continuare a lottare, ed ecco perché Oriana collega il suo eroismo al suo essere poeta, scrive con il sangue le sue poesie, visto che non gli lasciavano neanche una penna dopo essere riuscito a scavare una buca, per fuggire, con il solo uso di un cucchiaino.

Ho dato voce ai muri

gli ho dato voci

perché mi facciano un po’ di compagnia

I secondini cercano e ricercano

dove ho trovato la tinta

I muri della cella

tengono il segreto

i mercenari frugano e rifrugano

E lo stesso non trovano la tinta

Non gli è venuto in mente

di frugarmi le vene.

Un Uomo, che viene liberato grazie ad un’amnistia generale da parte del dittatore e quasi non gli va di uscire di prigione perché vuole continuare a lottare, ha capito di essere un simbolo. Un Uomo, che ha subito ogni tipo di tortura e di tentativi di omicidio. Un Uomo, che dopo essere uscito di prigione, il 23 agosto 1973, incontra Oriana Fallaci, alla quale racconta tutto. Un Uomo, che per aver continuato a lottare e a denunciare, muore. Perché questa è la fine di tutte le tragedie più belle che siano mai state scritte. Perché questo è il finale di tutti gli eroi, che con il lugubre canto del cigno lasciano la scena tra le lacrime del pubblico. Tra le lacrime di quella folla, che urla Zi, zi, zi! Vive, vive, vive!

«Nel 1968 Alessandro Panagulis fu condannato a morte per aver cercato la libertà, nel 1976 Alessandro Panagulis è morto per aver cercato la verità ed averla trovata.» È la storia di un eroe. Forse la vera e unica figura eroica che rimarrà sempre tale secondo il giudizio di Oriana Fallaci. Forse perché, da un lato, assomigliava tanto al suo babbo, militante della Resistenza: aveva lottato contro una dittatura, era stato catturato e nonostante le torture non aveva parlato, stava combattendo in nome della libertà, della verità. «Il babbo venne torturato per diversi giorni, assieme agli altri, e più volte minacciato di fucilazione.» Quando uscimmo, io chiesi a mia madre: «Perché, mamma, lo hanno picchiato a quel modo?». E mia madre rispose: «Perché tuo padre fa politica. Perché cerca di rendere questo mondo un po’ più decente, un po’ più dignitoso, un po’ più sopportabile.»

Forse perché, dall’altro lato, assomigliava tanto a sua mamma. Se vegliare su sua madre malata la porta a scrivere «vedere questa creatura che ti ama, che ami, soffrire crocifissa come un Cristo crocifisso… »; vedere per la prima volta Alekos, l’aveva portata a scrivere: «Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte…»

 Rimangono dei modelli per lei, grandi uomini. «La virilità non dipende dal sesso. Dio cosa darei per essere un grand’uomo.» È quindi la storia di un Uomo che incontra un altro Uomo. È la storia di un Uomo che incontra un alitaki, che è vero, vuol dire ragazzino, ma significa anche monello, significa anche Oriana. È la storia di una grande storia d’amore destinata per l’eternità. E questo è dimostrato dai loro bambini: la raccolta di poesie di Alekos, Vi scrivo da un carcere in Grecia e il libro Un uomo di Oriana. Lo dimostra anche un bigliettino piccolo che dice così: S’agapò tora kai t’asagaò pantote. Ti amo e ti amerò per sempre.

E ogni volta che penseremo alla libertà, al suo valore, al diritto ma anche al dovere che abbiamo nei suoi confronti, ci sembrerà di sentire quella voce seducente e gutturale che era solita dire, quando Oriana gli rispondeva al telefono: «Sono io, sono me!» E ogni volta che troveremo un Alekos o un Mosé, ricordiamoci di questa storia, diamo loro la libertà di lottare, di scriverla questa storia degli uomini che per quanto sia dolorosa è bella da morire, nel vero senso della parola.

BIBLIOGRAFIA:

Le citazioni sono tratte dalle seguenti opere:

Cristina De Stefano, Oriana. Una donna, Milano, Rizzoli, 2014.

Oriana Fallaci, Il coraggio che ci serve, Milano, Rizzoli, 2016.

Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 1981.

Oriana Fallaci, Solo io posso scrivere la mia storia. Autoritratto di una donna scomoda, Milano, Rizzoli- Ed. speciale per Corriere della Sera, 2019.

Oriana Fallaci, Un uomo, Milano, Rizzoli, 2014.

Alexandros Panagulis, Vi scrivo da un carcere in Grecia. Memorie di un partigiano contro la dittatura dei Colonnelli, Roma, Pgreco, 2017.

La grande storielle d’amicizia tra Riccardo Nencini e Oriana Fallaci.

Riccardo Nencini non è solo un senatore, non è solo il Presidente del Partito Socialista Italiano, non è solo uno storico ed uno scrittore, ma è anche un amico di Oriana Fallaci.  Lo è tutt’ora, altrimenti non le avrebbe regalato, visto che proprio oggi sarebbe stato il suo compleanno, un’intera trilogia: da Morirò in piedi, a Il fuoco dentro, fino alla pubblicazione, nel 2021, di A Firenze con Oriana Fallaci. Ci siamo sentiti qualche giorno fa, entrambi eravamo in macchina e avevamo tanta voglia di chiacchierare su Orianache oggi compierebbe 92 anni.

Dal libro Morirò in piedi, il primo della trilogia che Lei ha scritto su Oriana Fallaci, afferma che il vostro primo incontro sia avvenuto al telefono nell’ottobre del 2002, in vista del Social Forum.

RICCARDO. Esatto.

Fin da quella prima chiamata, Oriana aveva dimostrato il lato più pungente e determinato del suo carattere, che è anche quello che ha sempre voluto mostrare in pubblico. Le volevo chiedere come sia stato conoscerla sotto un altro punto di vista, quello umano. Com’è stato scovarne i lati più intimi e introspettivi, scoprendo in lei un’amica e non la persona di successo?

È stata una rivelazione. Una r-i-v-e-l-a-z-i-o-n-e. Una donna sola, profondamente sola… si sentiva che le mancava un figlio. Via via che il legame si è stretto, lei si è aperta moltissimo, fino a rendere reciproche le confessioni. Pensa che un giorno mi ha addirittura cucinato un ottimo castagnaccio. Io ne sono un gran goloso, e arrivò a cucinarne uno che era fantastico. Sai posso dire che siamo diventati amici per un lungo periodo e che mi manca molto.

Immagino, manca anche a me, ed io non l’ho mai conosciuta.

Carattere eh, carattere spinoso. Pungente e spinoso. Alle volte proprio del filo spinato, però quando entravi sotto pelle, era una persona che pretendeva molto ma dava moltissimo.

Come la definirebbe come giornalista, come scrittore e, infine, come amica?

( breve silenzio. ) Incominciamo come giornalista: creativa, pungente, provocatoria, volutamente provocatoria. Come scrittrice aveva uno stile purissimo, che aveva limato e costruito dopo anni di tentativi. Me la immagino alla scrivania: lei, il Dizionario dei sinonimi e contrari, il Devoto-oli e il bianchetto per correggere. Uno stile purissimo, immediatamente identificabile come suo. Quando la leggi dici subito: “È Fallaci!” E poi direi anche multiforme perché passa da Un cappello pieno di ciliege, che è un bel romanzo, davvero un bel romanzo, a libri molto più veloci, a saggi, a reportage di guerra, anche quelli sono innovativi rispetto alla tradizione dell’inviato di guerra. Come amica, beh come tutti gli amici cari, coinvolgente. Coinvolgente, piena di premure.

La parte che mi ha sempre colpita, sempre del suo libro Morirò in piedi, è la visita alla Torre dei Mannelli insieme con Oriana Fallaci. Avrebbe voluto trascorrere lì gli ultimi giorni della sua vita, guardando la cupola della sua Firenze. Lei si rende conto che è uno delle poche persone al mondo ad averla vista piangere?

Penso di sì. Sorridendo. Sì, l’ho vista piangere e piangeva davvero. Era il ritorno alle origini, alla Resistenza.

In questo modo mi posso collegare all’ultimo libro della trilogia, chiedendole come definirebbe il rapporto di Oriana Fallaci con Firenze, da lei considerata come città “per intero”, rispetto a New York, che aveva definito “città-mia per metà”. A pagina 123 afferma: “Firenze non l’ha amata davvero”.

No, mai. Era un rapporto bastardo, perché lei l’ha sempre amata e Firenze l’ha sempre vista in cagnesco.

E infatti mi ha colpito molto il suo racconto dei funerali. Lei lo diceva: “Prima che essere italiana, sono fiorentina”, mai mi sarei immaginata un trattamento del genere.

Eravamo una quindicina forse? Forse un po’ meno. Mazzi di fiori direi una manciata.

Sono un po’ preoccupata. Quest’anno saranno vent’anni dall’attento alle Torri gemelle e io so perfettamente che si tornerà a parlare “male” di Oriana. Non male perché vengano riprese le sue parole in senso critico, ma male perché saranno trattate senza il giusto giudizio. Nel suo colloquio con Oriana Fallaci lei afferma che un punto debole delle varie dichiarazioni che aveva fatto nella sua trilogia fosse la posizione della Chiesa Cattolica, da lei considerata come unico pilastro per combattere questa invasione che avrebbe trasformato l’Europa in Eurabia e …

Ci fu un po’ di scontro anche con me su questo punto perché non appoggiavo questa sua profezia, che infatti non si è realizzata. Però lei deve tener conto, mi ricorda il suo nome, che io uso spesso quando parlo? Carola, okay, Riccardo. Carola devi tener conto di una cosa decisiva. Oriana è una donna. È la prima donna che entra in una redazione di un giornale negli anni ’50, non ce n’erano; è la prima inviata di guerra, non ce n’erano; quindi per essere accettata, deve scrivere in maniera diversa. Questo suo scrivere in maniera puntuta, provocatoria di proposito, lei me lo diceva ogni tanto, è un modo per farsi ascoltare. Di alcune esagerazioni lei ne era consapevole, perfettamente consapevole. Ma erano esagerazioni che lei reputava necessarie, proprio perché era una donna che era entrata nella redazione e poi buttata fuori, era inviata di guerra con tutti uomini, doveva fare uno sforzo superiore come darsi uno stile, anche provocatorio, per essere ascoltata.

Non capisco perché non si riesca mai a contestualizzare, come si fa per ogni altro autore: bisogna, infatti, contestualizzare per comprendere in quale momento della vita scriva determinate asserzioni e quale fosse il periodo storico, quale fosse il suo passato. Lei era stata a contatto con i terroristi, era una delle poche, forse, a sapere totalmente di cosa si stesse parlando.

Certo, certo, era stata in Libano. Aveva toccato con mano.

E in più ha anche detto delle verità, tra le tante provocazioni più o meno legittime, come il fatto che avrebbero colpito anche in Europa, che al tempo sembrava un’assurdità, e invece non era poi così assurdo.

Esatto, esatto.

La cosa che mi dispiace molto è che Oriana sapeva di non essere capita e che non sarebbe stata capita, lo aveva anche scritto. Si rinchiudeva nel suo appartamento e si prendeva cura dei suoi figli, che sarebbero appunto i suoi libri, e tra l’altro Lei, Riccardo, ne parla nel libro Morirò in piedi, quando dice che tenendo gli occhi sui fogli di Un cappello pieno di ciliege, li guardava come se fossero un neonato.

È vero! È assolutamente vero! Io ne sono la prova. Poco prima di morire, quando io andai a trovarla a casa del medico che la curava, vidi una pila di carta e le chiesi: “Oriana lì che c’è?” E ci misi una mano sopra. ( Ridiamo e inizia una perfetta imitazione scherzosa, ma neanche troppo, di Oriana ) “Riccardò, lascia stare eh, vaffanculo eh!” Allora io dico: “Ma cos’è? È l’ultimo libro allora questo, fammi vedere il titolo!” “Sì, ti faccio vedere il titolo… non ci penso nemmeno.” Ci mise sopra una mano e siccome era semicieca e aveva quindi bisogno di un contatto fisico, con una mano aveva la mia mano, e con l’altra proteggeva il manoscritto. Poi, ad un certo punto, siccome con le due mani impegnate non si trovava bene, prese un libro e ce lo mise sopra.

Doveva essere sicura di proteggerlo.

Sì, ed era quello. Era già “finito”, come sarebbe stato poi pubblicato.

Ci ha lasciato tantissimo, è stata, per me, il primo modello della donna moderna, che non dipende da nessuno, totalmente libera, tanto nella vita privata, come testimoniato dal suo primo romanzo Penelope alla guerra, quanto anche professionalmente, basta leggere una sua qualsiasi intervista, in cui non segue minimante le convenzioni del tempo. Mi chiedo e vorrei ragionare con lei, sul motivo per cui tutta questa parte del suo lavoro non sia rimasta nella memoria collettiva, perché quando si parla di lei, lo si fa ricordando solo questi ultimi anni e perché anche…

Perché è stata politicizzata. Perché certa cultura di una certa sinistra italiana ha preferito dimenticare il buono per inchiodarla alla croce della trilogia. Ne Il fuoco dentro c’è una serie di revisioni da parte di chi fu più duro nel 2001 verso di lei. Feci un lavoro di ricerca, e tra l’altro chi cambiò opinione lo fece, come avviene per molta parte della intellighenzia di certa sinistra italiana, senza fare nemmeno penitenza… Si cambia opinione e ciao.

E questo non avviene solo nell’ambito politico, ma l’ho percepito anche nell’ambito accademico. Non viene riconosciuta come scrittore, da studiare, su cui fare ricerca. Se parliamo di Pasolini, faccio questo paragone giusto perché era suo amico, va bene. Lei, no.

Guarda Carola, ho fatto uscire il mio ultimo libro per Mondadori, Solo, su Matteotti. Io sono un riformista, un vecchio socialista turatiano, il libro ha avuto delle ottime recensioni. L’unico giornale che non ha recensito perché si parla della storia Vera di quegli anni è Repubblica. Stessa storia di Oriana, stessa. Tu porti le carte, i documenti, e niente. N-I-E-N-T-E. Con carte e documenti mai citati prima. Oriana vive la stessa cosa. Lei lo diceva sempre riguardo a Tiziano Terzani. Avevano pensato di scrivere un libro assieme, lo sai questo?

No. Ma credo che quasi nessuno lo sappia.

Dovevano scrivere un-libro-insieme! ( è compiaciuto ) Avevano già preso accordi per scrivere un libro a quattro mani!

E sarebbe stato molto interessante quel libro, molto interessante.

“Hai capito Riccardo? Hai capito?” (imitazione di Oriana perfetta ) “Questo ha sempre detto una valanga di cazzate”, perché devi sapere che Oriana parlava un ottimo italiano ma nei rapporti a due parlava come una portuale livornese… Allora le chiedo: “In che casi Oriana?” “Come in che casi? Tutti! È stato in Cambogia ha detto che Pol Pot era un ganzo, ha fatto due milioni di morti, è stato in Cina e…” E aveva ragione lei… Cazzo, se aveva ragione Carola aveva ragione da vendere.

Se fosse ancora qui con noi, L’Oriana, nata il 29 giugno del 1929, cosa le regalerebbe per questo compleanno?

Guarda le regalerei il mio nuovo libro Solo, sai perché? Perché è il libro che ho scritto come probabilmente avrebbe voluto lei. Ti spiego perché, Carola. Un giorno, ci fu una discussione. Io stavo scrivendo un romanzo medievale, L’imperfetto assoluto, e sai che lei aveva “il pallino” che non si potesse usare la stessa parola per almeno quattro pagine etc? Ecco, bene. Io le dissi che il termine città, in Medioevo, si dice solo “città”,  non c’è un sinonimo. E lei mi rispose: “Ce l’hai un lavoro?” E io dico: “Sì, ce l’ho un lavoro”. E lei dice: “Beh, perfetto, meno male, almeno non scrivi”. E li finì. Lei era fatta così. Ma anche in questi colloqui, quando parlavamo così, lei mi ha insegnato moltissimo e Solo e anche in parte Il fuoco dentro hanno raccolto qualcosa delle sue indicazioni e del suo insegnamento.

Qual è l’insegnamento più importante?

Fatti capire. Se scrivi ti devono capire, chi legge deve capire.

Alla fine è l’unica cosa che conta.

Grazie Riccardo, grazie Oriana.

Gli scrittori della Porta Accanto

Qual è la grande storiella del vostro progetto?

 “Gli scrittori della porta accanto” è un gruppo quasi interamente al femminile: Valentina Gerini, Stefania Bergo, Tamara Marcelli, Ornella Nalon, Davide Dotto e Silvia Pattarini. Abbiamo iniziato a collaborare insieme verso la fine del 2014 e nel 2015 è nato il sito. Ci siamo conosciute grazie ai nostri libri, leggendoci a vicenda per caso e grazie ai social network. Inizialmente il sito è nato come un blog in cui postare delle recensioni dei nostri libri o dei libri di altri autori. La redazione si trova in Italia, anche se non vi è una vera e propria sede, poiché siamo sparsi un po’ ovunque, per esempio io sono in Toscana e la mia collega Stefania Bergo è in provincia di Rovigo. All’interno di questo progetto, ognuno di noi ricopre un ruolo diverso: Stefania Bergo si occupa principalmente della grafica, io mi occupo dei social, del marketing, dei corsi e delle pubblicazioni dei nostri libri. Ornella Nalon si occupa della comunicazione della posta (tutto quello che é mail), Silvia Pattarini si occupa delle interviste agli autori, Tamara Marcelli della poesia e Davide Dotto dell’editing. Inoltre, io, Valentina Gerini, e Stefania Bergo, abbiamo aperto una sessione dedicata ai viaggi nel blog, in quanto fortemente interessate a questo ambito. Allo stesso tempo, chi è appassionato di cucina, parlerà di cucina e cosi via. Nel tempo il sito si é evoluto e si è soprattutto ingrandito, infatti oggigiorno abbiamo molti collaboratori anche dall’estero: dalla Francia o dall’Australia. Da questo punto di vista, siamo molto internazionali.

Perché questo nome?

Quando abbiamo deciso di aprire la collana editoriale, e dovevamo quindi trovare una descrizione che rappresentasse la collana, abbiamo scritto: “Siamo scrittori per passione, della porta accanto per non mettere troppo spazio tra noi e i nostri lettori, siamo la vicina di casa, il cassiere del supermercato, la giornalista, l’ingegnere, la guida turistica, l’insegnante, l’artista, il medico. Gente comune con storie fuori dal comune da raccontare”. In questo modo, si crea un ambiente più conviviale, poiché la descrizione “della porta accanto” dovrebbe dare l’impressione che quel gruppo di persone è “alla mano”, è “il vicino di casa”: sempre pronto ad aiutarti con la differenza che questo vicino di casa ha una particolarità, ha delle storie da raccontare.

Di cosa vi occupate più precisamente?

Sul sito pubblichiamo costantemente articoli e recensioni. Si spazia dalla letteratura, ai viaggi, all’ attualità, al cinema e al teatro. Abbiamo il sito, che noi chiamiamo “web magazine culturale”, ed esso racchiude un po’ tutto ed è la piattaforma in cui pubblichiamo. Oltre a questo, curiamo la collana editoriale, anch’essa chiamata “Gli scrittori della porta accanto” con la quale pubblichiamo libri: li riceviamo, li selezioniamo, facciamo editing e ci dedichiamo alla grafica. È necessario sottolineare, però, che non siamo una casa editrice a pagamento. Ci occupiamo inoltre dei servizi editoriali, come l’intervista all’autore che vuole visibilità, con i quali ci manteniamo insieme ai corsi online (nati durante il lockdown), come il corso di swahili (fatto esclusivamente in beneficienza) o di inglese o di yoga. Paghiamo il docente e quello che rimane viene investito nel sito o nella grafica. Infine c’è l’associazione, l’involucro che racchiude tutto.

La particolarità di questo progetto sta inoltre nel fatto che abbiamo quasi tutte un’età diversa, che va dai trenta ai sessant’anni e questo fa si che ci sia uno scambio continuo e soprattutto una condivisione di esperienze diverse.

Cos’è per voi la scrittura?

La scrittura è un’espressione di se stessi, molto spesso si scrive per esprimere qualcosa, perché non è detto che poi tu venga letto da qualcuno”. Penso che questa sia una definizione di scrittura condivisa da tutto il gruppo. Da appassionate scrittrici siamo appassionate lettrici, queste due cose vanno di pari passo. Mentre un lettore può leggere e basta, uno scrittore non può non essere un lettore. Io, personalmente, non mi sento né più scrittrice né più lettrice, sono entrambe nello stesso modo.

Valentina Gerini

In particolare tu, Valentina, di cosa ti occupi all’interno del progetto?

All’interno del progetto io mi occupo dei social, principalmente di Instagram. Mi dedico della comunicazione con gli autori della nostra collana editoriale e di tutti i corsi che offriamo. Li creo, li seguo e li porto avanti. Tengo inoltre le fila dell’associazione  e della parte amministrativa. Infine, sono una delle fondatrici e anche la vice-presidente. Quello che conta all’interno del gruppo è soprattutto il lavoro di squadra.

La nostra decima storiella inizia con: “É il grande dilemma dei giovani. Partire rimanere. Viaggiare o restare”. Dato che ti occupi anche di viaggi e organizzi corsi di lingua online, come quello di swahili per viaggiatori, cosa ne pensi?

Innanzitutto il mio consiglio è quello di “partire”, sempre. Ed è quello che ho fatto io quando ero giovanissima, perché il mio sogno era proprio quello di andare in giro e trovare un lavoro che mi permettesse di viaggiare. Sono partita a vent’anni, facendo l’assistente turistica, un lavoro che mi portava a cambiare meta ogni sei mesi. Successivamente, sono diventata accompagnatrice turistica: ho continuato a viaggiare, ma ad un certo momento della mia vita sono tornata a casa. La mia passione del viaggio è nata quando ero ancora una ragazzina, quando iniziai a sentire che il posto in cui mi trovavo mi stava stretto. C’è chi sta bene nel posto in cui é nato, io invece dovevo vedere, dovevo esplorare questo modo così magnifico. Quindi il consiglio che do sempre ai giovani è di “prendere e andare”, perché quando ritorni, ritorni sicuramente diverso e migliore. Ti accorgi inoltre che il mondo non finisce al confine del tuo paese, ma che c’è altro. Le realtà nel mondo sono infinite e il viaggio ti permette di capire e ti apre la mente. Del viaggio ne ho fatto una vera e propria professione. Poi parallelamente ho portato avanti questo progetto che mi ha salvata durante il lockdown, dato che non si poteva viaggiare.

Cosa é il viaggio per te e in che modo ti senti cambiata?

Il viaggio per me è esperienza, non necessariamente deve essere sempre un viaggio diverso. Molto spesso a me piace tornare nei posti già visitati, poiché c’è sempre qualcosa da scoprire ancora o qualcuno da trovare. A me il viaggio ha fatto capire che il mondo non gira intorno a me, non gira solo intorno al mio paesino, ma che là fuori c’è tanto da scoprire. Mi ha resa più aperta. “Io penso che la decisione di viaggiare sia stata la scelta più bella che io abbia mai preso, sono quello che sono oggi, grazie a quella decisione”. Viaggiando ho incontrato quello che è mio marito oggi, nato in Repubblica Dominicana e ora ho una figlia italo-dominicana. “Io devo tutto ai viaggi”.

Ora che hai una famiglia, riesci comunque a viaggiare? E soprattutto, hai mai sentito il bisogno di fermarti?

Sì, ho sentito il bisogno di fermarmi perché ero un po’ stanca, soprattutto perché viaggiavo per lavoro e non ero io a scegliere le destinazioni, anche se quelle che mi sono state assegnate non erano niente male: sono stata a Zanzibar, a Santo Domingo, in Grecia, ecc… posti paradisiaci. Ad un certo punto, però, ho sentito il bisogno di decidere per me stessa. In quel caso mi sono fermata, cercando una soluzione che potesse essere il viaggio, ma in un posto scelto da me. E soprattutto, in quel momento avevo proprio bisogno di casa. Non é detto, però, che uno debba rimanere nello stesso posto per sempre: “io sono un po’ un’anima in pena, nel senso che oggi sto bene qui e domani invece voglio andare da un’altra parte, quindi ora come ora non mi sento ancora nel posto definitivo, nel senso che non sono sicura di passare qua il resto della mia vita”. Con una famiglia è più complicato viaggiare, per esempio non posso andare via sei mesi come facevo prima, ma si può viaggiare lo stesso. Io ho viaggiato molto con mia figlia da sola, per esempio con lei sono stata a Zanzibar, in Portogallo, a Londra. É un altro modo di viaggiare: più responsabile e meno improvvisato, ma come vedete si può fare.

Quando sei partita a vent’anni, qual era la tua idea di viaggio?

 All’avventura: “quello che non sai cosa andrai a fare”. Sono poi partita per lavoro non sapendo nemmeno di preciso in cosa consistesse quell’attività, sapevo si trattasse di turismo, ma io non ero mai stata in un villaggio turistico. Tutti i miei viaggi sono quindi sempre stati così, all’avventura e alla scoperta dell’ignoto, fino all’arrivo di mia figlia, quando sono diventata più responsabile. Viaggiando, inoltre, ho stretto molte amicizie, di conseguenza posso nominare un posto del mondo e dire “forse lì ho qualcuno”. Ogni stagione mi ha regalato un’amicizia importante.

Se siete interessati a questo progetto, ecco a voi i link:

La grande storiella di Leo Club Italia

Anna Leone é una studentessa fuorisede di 19 anni e in questo articolo ci presenterà l’associazione “Leo Club Italia”, più precisamente il club di Fossano, una cittadina piemontese in provincia di CuneoAnche la storia di questo club é bella da leggere e degna di essere raccontata.

Anna é venuta a conoscenza dell’associazione circa quattro anni fa tramite una sua amica, anche lei una socia del club. All’inizio Anna vedeva questo progetto come qualcosa di molto tranquillo, come un “nuovo gruppo di amici” che si trovavano per fare qualcosa insieme. In realtà, é stata la base della sua crescita e del suo cambiamento: “l’associazione mi ha dato una nuova visione sul mondo: erano per me gli anni della crescita, questa esperienza mi ha davvero formata e continua tutt’ora a farlo. Sarei completamente diversa se non fossi entrata nei leo”.

Per quanto riguarda il tema “amicizia”, all’interno dell’associazione hai stretto amicizie forti?

Sí, assolutamente. Ho avuto l’opportunità di conoscere moltissime persone nuove, anche perché é un’associazione che vede persone tra i 18 e i 30 anni. Siamo tutti più o meno coetanei, ma vi é comunque una grande differenza tra un diciottenne e un trentenne, di conseguenza il dialogo e il confronto mi hanno permesso di acquisire nuovi comportamenti e conoscere valori o modi di pensare diversi dal mio. Ed é proprio questa la parte che mi ha arricchito maggiormente e nel tempo si sono create delle amicizie fortissime. All’interno del club, ci sono inoltre persone con interessi o stili di vita completamente diversi, ma ció che li accomuna é questo: “la volontà di fare del bene in qualsiasi sfaccettatura”.

 Qual é la differenza tra “Leo Club” e “Lions”?

Il Lions Club International esiste da molto più tempo rispetto al Leo Club Italia. Il Lions é nato nel 1917, mentre la nostra associazione intorno agli anni sessanta. La differenza sostanziale tra i due é l’età: i “leo” vanno dai 12 ai 30 anni, mentre il Lions accoglie membri dai trent’anni in su. Nella pratica, inoltre, le differenze sono tante: per esempio, il Lions é quasi sempre un’istituzione e ha più disponibilità economiche e soprattutto più contatti e più esperienza. In ogni caso, Leo Club e Lions Club collaborano notevolmente tra di loro e hanno un rapporto di grande intesa. Per quanto riguarda la realtà di Fossano, il Lions é molto aperto e giovane come mentalità, e non é scontato, dato che si trovano ancora Lions Club in cui possono entrare solo uomini.

Uno scambio tra Leo e Lions

Di cosa si occupa il Leo Club in modo specifico?

Il nostro motto é “servizio” in senso lato, vale a dire ovunque ci sia bisogno, i leo sono presenti. ll Leo Club si occupa infatti di più settori ed é formato da numerose aree: l’area giovani, che propone attività che coinvolgono bambini e adolescenti, l’area internazionale (grazie al Lions che continua gli scambi giovanili) o l’area comunità che riguarda soprattutto il sociale, e molte altre ancora. Ogni area propone delle attività, che vengono chiamate “service”. Il club é gestito da un direttivo formato da un Presidente, un Segretario e un Tesoriere. Inoltre, ogni club fa riferimento ad un distretto e questi distretti sono sparsi ovunque in Italia. All’interno del club tutti si occupano della stessa attività, mentre all’interno del distretto ci sono delle persone di riferimento, gli officers ( per esempio si ha un office dell’area fame o dell’area attività), che danno delle indicazioni più precise ai club sulle attività che potrebbero svolgere.

E tu Anna, di cosa ti occupi nello specifico?

All’inizio sono entrata nel club come socio e, in un secondo tempo, sono venuta a conoscenza della realtà distrettuale. Il nostro distretto comprende il Basso Piemonte, quindi la provincia di Cuneo e una parte di quella di Torino e la Liguria di ponente. Sono stata officer di un service introdotto da due anni e proposto dal Leo Club di Fossano, il service si chiama “Leo for Women”. A partire da un femminicidio che aveva sconvolto la cittadina di Fossano, avevamo pensato di proporre un’attività in merito, da qui l’idea del service. Io mi ero inoltre candidata come referente ed ecco la mia ascesa all’interno del distretto: ora ricopro il ruolo di segretaria distrettuale. É un incarico importante, la quantità di lavoro da svolgere é ingente, ma é molto gratificante e soprattutto sono onorata di essere stata scelta.

Campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne

Secondo te é importante informare i giovani sull’esistenza di questa associazione?

Sí, secondo me é molto importante informare i giovani sull’esistenza del Leo Club Italia. Molto spesso si pensa alle associazioni di volontariato come a delle associazioni mirate ad una causa specifica, quindi in alcuni casi manca l’interesse verso quel tipo di tematica o semplicemente non tocca da vicino. Il Leo Club, invece, é aperto a qualsiasi tipo di attività e a qualsiasi settore. Inoltre, la realtà di club e di ristretto arricchisce molto la persona in sé, dato che si entra a far parte di un gruppo. Entrando in questo tipo di associazione si cresce grazie alle numerose sfide che si devono affrontare. Tutto questo, se vissuto come gruppo, diventa un vero e proprio stimolo, un percorso di crescita e molte volte si trova anche l’amore!

Una particolarità del progetto che preferisci o che più ti sta a cuore?

Ogni club, a seconda delle idee e dei soci, declina a modo proprio le attività. La particolarità risiede nel fatto che tutti possono lavorare su un’unica area, come per esempio l’area giovani, e dare vita ad iniziative diverse tra loro. Non si hanno attività imposte, ogni club puó agire in modo differente: per una stessa causa troviamo molteplici iniziative.

Dato che oggigiorno il tema ambiente é molto dibattutto, che cosa mi sai dire a proposito di quest’area?

Le attività dell’area ambiente si sono intensificate soprattutto negli ultimi anni. L’attuale presidente distrettuale sta lavorando molto sui diciassette obiettivi dell’agenda dell’ONU 2030, quindi cerchiamo di rincondurre le varie attività a questa meta. Abbiamo, per esempio, creato dei libricini che, attraverso delle storielle semplici, cercano di sensibilizzare i bambini al tema ambientale e ogni anno raccogliamo i tappi e li doniamo a Candiolo. Ogni settimana, inoltre, cerchiamo di dare consigli su come vivere in modo ecosostenibile tramite una rubrica sui social. Infine, l’anno scorso abbiamo indetto un mini concorso nelle scuole elementari in cui si chiedeva ai bambini di creare delle piccole opere con la plastica riciclata. Quest’anno il distretto ha regalato ad ogni socio un albero su treedom con lo scopo di far conoscere questa idea e diffonderla. Come puoi vedere, l’area ambiente si sta sviluppando sempre di più.

In che modo Leo Club Italia é legato al viaggio?

É il Lions Club ad occuparsi principalmente degli scambi giovanili, noi li aiutiamo se hanno bisogno di sostegno. Per esempio, il club di Fossano é molto legato a questa sezione, poiché la maggiorparte dei soci di Fossano hanno partecipato agli scambi giovanili. Ci sono tantissimi modi per collegare i leo al viaggio, per esempio le riunioni vengono orginizzate un po’ in tutta Italia e quindi ci si puó spostare. Inoltre, i leo non esistono solo in Italia, ma in tutto il mondo, proprio come i Lions ed é soprattutto questa la loro dimensione internazionale.

Con che parola definiresti il “Leo Club Italia”?

Mi viene in mente la parola “divertimento”, poiché tutte le attività a livello del club finiscono sempre per essere un momento di condivisione e negli anni si sono create delle dinamiche di gruppo davvero molto belle.

Quali sono i tuoi piani futuri legati al club?

Mi piacerebbe avere il ruolo di presidenza. Attualmente, peró, il mio più grande obiettivo é quello di far conoscere la realtà del Leo Club di Fossano e soprattutto di passare questo messaggio: “dove c’é bisogno, noi ci siamo”.

La realtà dei leo é ovunque, per esempio quando mi sono spostata da Fossano a Trento, il mio primo pensiero é stato controllare se a Trento ci fosse un Leo Club: “se vivo in questa casa e se conosco questo ambiente, é grazie ad un leo che mi ha dato il contatto”. Nel periodo di quarantena, inoltre, si sono tenuti dei “webinar”, delle riunioni online per tutti i Leo Club italiani. Ogni domenica era un appuntamento fisso e un modo per conoscere persone nuove, nonostante la distanza.

La realtà di questo club si puó quindi riassumere con tre parole: comunità, condivisione e amicizia. É un modo di crescere insieme e di fare esperienza anche stando all’interno della propria città.

Un ringraziamento speciale ad Anna Leone per questa intervista.

Se siete interessati a questa realtà, ecco a voi i link per la pagina Facebook: Leo Club Fossano e Provincia Granda | Facebook e Instagram: Leo Club Fossano (@leoclubfossanoeprovinciagranda) • Photos et vidéos Instagram

Morena Bergia

Viviamo in positivo

Ecco a voi un altro tipo di esperienza “degna” di essere raccontata. Nel 2016 Veronica Correndo entra a far parte dell’associazione ConiVIP e in questa intervista spiegherà su cosa verte la clownterapia.

Che cos’è l’associazione ConiVIP?

VIP ITALIA, “Viviamo IPositivo”, è una federazione che propone un tipo di terapia medica alternativa, chiamata clownterapia o associazione dei “nasi rossi”. Ogni sede ha il nome della propria città, per esempio Vip Cuneo, Vip Alba o Vip Bra. In modo particolare, Veronica fa parte di ConiVIP, Vip Cuneo. L’obiettivo principale di questa associazione è quello di effettuare servizi negli ospedali, per esempio ConiVIP è associato al Santa Croce, al Carle e al Regina Margherita. Oltre alle attività negli ospedali, la federazione si occupa anche dei servizi extra nelle RSA, nei campeggi estivi e all’estate ragazzi. Tutti gli anni a maggio viene organizzata la giornata del naso rosso (GNR) nelle diverse piazze d’Italia. A Cuneo viene svolta in via Roma; a Livorno, dove Veronica è stata anche volontaria, in Terrazza Mascagni, sul mare. La federazione propone inoltre altri progetti. Ogni progetto è capitanato da uno staff nazionale che si interfaccia con il direttivo nazionale il quale, a sua volta, prende decisioni per la federazione. Il primo è il progetto missione di volontariato. VIP ITALIA si occupa di pagare una parte del viaggio al volontario, mentre il resto è sotto la responsabilità di quest’ultimo. Le destinazioni principali sono la Bolivia, Palermo, l’Albania o la Colombia. Oltre a questo, troviamo il progetto scuole. Quest’ultimo consiste nel mandare nelle scuole alcuni clown specializzati che hanno il compito di promuove un progetto continuativo con la stessa classe ed esso può durare da cinque- sei mesi a un anno intero.

Quando si è iscritta Veronica a questa associazione?

Veronica si è iscritta nel 2016 e, per entrare a far parte dell’associazione, si deve seguire un corso di tre giorni chiamato “corso base”. Il corso di clownterapia è stato il suo regalo dei diciotto anni. Durante il corso, inoltre, si deve scegliere il nome clown che non deve essere un nome banale. Sua cugina, quando era piccola, non riusciva a dire Veronica, chiamandola affettuosamente Gonga. Da qui il nome clown di Veronica, Gonga. Le persone che fanno parte dell’associazione molto spesso si conoscono solo con il nome clown. Possiamo quindi definire Gonga il secondo nome di Veronica.

Qual è la differenza tra allenamento e servizio?

La clownterapia si compone di due attività principali: gli allenamenti e i servizi. L’allenamento è una formazione sia come clown sia come persona. Si tratta di una vera e propria crescita: uno dei valori VIP è “uniti per crescere insieme”, crescere come gruppo: “non si tratta solo di mettere un naso rosso di plastica, ma è molto di più, è un naso che si ha dentro”. L’allenamento può essere più attivo, poiché si apprendono nuove attività, o più emozionale ed è spesso basato sull’improvvisazione. Ogni allenamento affronta un tema diverso e, generalmente, si svolgono lavori di gruppo per aprirsi agli altri e conoscerli più profondamente. Ci sono infine anche corsi finanziati da Vip Italia con dei formatori esterni: chi viene per fare giocoleria, chi per fare corsi di magia, chi per i corsi di improvvisazione. A questi vanno aggiunti corsi più specialistici, per esempio Veronica partecipò due anni fa ad un corso di formazione per riuscire a fronteggiare anche le parti più delicate del loro lavoro, per essere pronti ad affrontare i reparti più difficili e le situazioni più spiacevoli. Gli allenamenti sono quindi attività in preparazione ai servizi. Per quanto riguarda i servizi in ospedale, possono essere svolti in una sala condivisa con tutti i bambini, come nel caso dell’esperienza di Veronica a Livorno, oppure si accede direttamente alla stanza del paziente. Per entrare nelle stanze, è necessario consultare prima un infermiere, poiché possono esserci dei pazienti in isolamento o dei malati terminali. Al Carle si può entrare nei reparti di geriatria, medicina interna, oncologia e pneumologia. Il Santa Croce, essendo più grande, offre una scelta più ampia di reparti, tra cui pediatria, neurologia e ginecologia. Il Regina Margherita accoglie ConiVIP due sabati al mese come ospiti e in questo ospedale si ha a che fare con i bambini. I servizi vengono svolti in reparti molto delicati come trapianti, immunodeficienza, oncologia, rianimazione, ma anche in reparti come sala gessi o pronto soccorso. Di solito a Cuneo si è tra gli otto e i dieci clown, mentre a Torino sedici o diciassette. Normalmente si è in due durante il servizio e, riguardo alle coppie, c’è una sorta di gerarchia da rispettare: il clown appena entrato nella fondazione si deve formare, è una sorta di “tirocinante”, quindi non lo si può lasciare da solo. Deve essere affiancato da qualcuno definito l’“angelo”. La figura dell’angelo è una figura che “protegge” il tirocinante durante il suo servizio e il primo anno è di tirocinio. L’angelo ha una responsabilità enorme, perché si deve sempre affiancare all’altro. Se, per esempio, quest’ultimo è in crisi, è l’angelo che deve capirlo e deve cercare di metterlo a proprio agio. I servizi non sono mai preparati, a meno che non sia uno spettacolo. È tutta improvvisazione. Si entra nella stanza e si agisce di seguito. È necessario essere molto versatili in questo tipo di volontariato. Molto spesso è la persona che sta vicina al paziente che ha più bisogno dell’aiuto dei clown, di conseguenza tutti devono essere coinvolti. Bisogna guardare ogni paziente allo stesso modo, i pazienti sono tutti uguali, non esistono distinzioni. I servizi variano in base alla fascia di età: con i bambini si improvvisa molto, è semplice farli felici. Con gli adolescenti si va piuttosto sulle freddure, con gli adulti si fanno magie o trucchi di carte e con gli anziani si parla. Una volta terminato il servizio, è gratificante lasciare un ricordo che può spaziare da un foglietto con scritto “viviamo in positivo, sorridi” a una molletta con attaccata una coccinella.

Quali sono i reparti più difficili da gestire?

Quando si ha servizio nei reparti più delicati e difficili, si è sempre un po’ agitati”. È necessario, però, non farsi prendere dal panico perchè più si è agitati, più il paziente lo percepisce e non si pone in maniera partecipativa. In quell’istante bisogna “viversi il momento, carpe diem”, non devono esistere le paranoie. Vediamo ora alcune esperienze di Veronica. Un giorno le era stato affidato un servizio a centro ustioni e, qui, trovò una bambina di quattro anni con mano e braccia amputati, poiché la sorella, per sbaglio, le versò una pentola di acqua bollente. Come gestire il servizio? Non era possibile utilizzare gli oggetti, la comunicazione era impossibile, perché non parlava italiano, quindi si poteva solo comunicare con i gesti. Tuttavia, quando Veronica venne a conoscenza della sua passione per la musica, le diede delle maracas e la bambina inizio a suonarle sotto le ascelle. Un altro giorno a Veronica venne affidato il reparto di fibrosi cistica, dove nelle stanze, a prescindere dal COVID-19, bisogna indossare mascherina, guanti e cappa, poiché i pazienti sono immunodepressi. Non potendo portare microbi all’interno, non si possono neanche portare oggetti. Oppure, se si porta un gioco, una volta uscito dalla stanza non può più essere utilizzato. Di conseguenza, senza oggetti, bisogna giocare con le parole e avere una persona collaborativa al proprio fianco. Infine, un altro reparto difficile è oncologia, soprattutto emotivamente. Il primo reparto in cui Veronica ha fatto servizio è stato proprio questo, all’inizio è un vero e proprio trauma, poiché il bambino più piccolo aveva 16 mesi. Ci sono inoltre episodi e persone Veronica porterà sempre con sé, come nel caso di una bambina francese di undici anni. Quel giorno, mentre i clown stavano giocando con le bolle, incontrarono la mamma della bambina in bagno. In questi reparti difficili si tende spesso ad utilizzare la magia della bolla: si fanno tante bolle, il paziente sceglie quella che più gli piace ed esprime un desiderio. Dalla bolla si fa in seguito uscire una biglia con il desiderio concretizzato. La mamma è scoppiata a piangere e tutto ciò che i clown hanno potuto fare è stato abbracciarla.

Che cosa ti lascia questo tipo di volontariato?

La clownterapia ha permesso a Veronica di vedere la vita e le sue difficoltà da un nuovo punto di vista. “È un dare e ricevere continuo ed è più ricevere che dare”. L’obiettivo della clownterapia è quello di portare un po’ di spensieratezza e di gioia nell’animo di persone che stanno vivendo un periodo difficile in ospedale: da quelli che hanno una gamba rotta a quelli che stanno combattendo contro una malattia molto più grave e impegnativa. Con questo tipo di volontariato si vivono delle emozioni fortissime. I pazienti, a loro volta, lasciano tanto: per esempio per l’anziano da tempo solo, il fatto di poter raccontare le sue memorie passate, è per lui motivo di grande gioia e la cosa più bella che gli potesse capitare.

Si possono avere legami con il paziente una volta fuori dall’ospedale?

No, è necessario mantenere un rapporto distaccato con i pazienti per evitare di affezionarcisi troppo. Ci sono stati casi di persone che si sono, per esempio, affezionate a bambini che sono venuti a mancare, di conseguenza tali persone, non reggendo un peso così grande, prendevano la decisione di abbandonare l’associazione. Per esempio, se un paziente vuole fare una foto con i clown, bisogna usare il suo telefono personale, per evitare di lasciare contatti.

Come funziona il progetto missione?

Per partecipare ad una missione, il clown deve essere ben formato. La missione viene organizzata durante tutto l’anno e si ha un capo missione, un VCM (volontario clown missione), una formatrice e un VCM una volta tornati dalla missione per immagazzinare tutto quello che si è vissuto. Veronica vorrebbe partire prima in Italia e poi all’estero. Le missioni durano una o due settimane, a seconda dei posti in cui si va: in Albania e a Palermo una settimana, mentre in Perù due settimane. Secondo Veronica, la missione è un’esperienza da provare, poiché si creano rapporti forti e indelebili, fatti di condivisione di scene bellissime, come di scene bruttissime. Sicuramente, dopo aver vissuto una missione di questo genere, il modo in cui si guarda il mondo cambia completamente.

Un ringraziamento a Veronica Correndo per la sua intervista

Morena Bergia

Jardim Denise

Una storia degna di essere raccontata e bella da leggere.

“Avevamo ancora tanto amore da dare e l’asilo di Capo Verde è stata l’opportunità perfetta”. Nel 2002, Anna e Lorenzo sono partiti per un’esperienza completamente nuova a Fogo, un’isola di Capo Verde. Il Jardim Denise è nato per ricordare Denise, la figlia di Anna e Lorenzo. Denise era una ragazza di 21 anni che studiava Psicologia all’Università di Torino e la cui vita si è fermata nel 2001 all’età di 21 anni a causa di un incidente stradale. Immergetevi ora in un racconto di pura bellezza, di coraggio e di amore infinito.

Che cos’è Jardim Denise?

Il Jardim Denise è un asilo su due piani: il primo piano corrisponde alla scuola materna e accoglie gli alunni dai tre ai sei anni, mentre al secondo piano si trova l’asilo nido con i bambini da zero a tre anni. Ospita circa sessantacinque bambini, quattro maestre, una coordinatrice e una cuoca. Gli alunni ricevono anche il pranzo, che consiste in un piatto unico, equilibrato tra proteine, ferro e carboidrati. Inizialmente, la parte superiore non era adibita ad asilo nido, ma serviva come appoggio alla comunità locale, dove si incontravano per la preghiera o dove si riuniva la gioventù francescana. L’orario dell’asilo si divide in due turni poiché, secondo le regole, non si possono tenere più di venticinque bambini per aula, di conseguenza si ha quello del mattino dalle 8 alle 12 e quello del pomeriggio dalle 14 alle 18 circa. Le famiglie pagano una tassa di cinque euro al mese per ogni bambino che frequenta il Jardim Denise, in questo modo sono motivate a mandare con più costanza i loro figli all’asilo. Purtroppo, però, non tutti possono permetterselo e, in caso di difficoltà, sono Anna e Lorenzo che pagano per loro, cosicché tutti abbiano la stessa opportunità. I lavori all’interno dell’asilo sono iniziati nel 2002 e l’inaugurazione è avvenuta nel 2003. Una volta arrivati a Capo Verde, Anna e Lorenzo sono stati accolti da un frate, Padre Federico, che si trova sull’isola ormai da quarant’anni. È stato lui a portarli all’interno dell’asilo che, prima di diventare il “Jardim Denise”, sembrava una cantina diroccata e, per questo motivo, veniva chiamato “l’asilo dei poveri”. Grazie all’intervento di Anna e Lorenzo, i bambini che frequentavano quell’asilo sono finalmente al pari degli altri, non c’è più un asilo dei poveri e, soprattutto, non ci sono più distinzioni di classe, dato che i bambini sono tutti uguali. Infine, questa struttura è l’unica ad avere dei giochi: tre scivoli, delle giostrine e dei cavallini, il tutto portato dall’Italia, insieme ai vestiti per i bimbi che vengono divisi per taglia, età e sesso.

Come funzionano le donazioni?

Il Jardim Denise nonostante non riceva, in quanto associazione privata, ingenti donazioni ha comunque un’importante rete di piccoli donatori perchè, come dice Anna, “gli italiani sono molto
generosi”. Le offerte arrivano dagli amici, dai volontari, dalle scuole, o anche dagli sposi. Con queste offerte si aiutano innanzitutto i bambini, in seguito quello che rimane viene investito nell’asilo. Per quanto riguarda, invece, i lavori di ristrutturazione e di ampliamento del Jardim Denise, essi sono a carico di Anna e Lorenzo. Sono stati loro, inoltre, ad aver portato l’acqua una volta arrivati a Fogo, essenziale per l’asilo, così come la luce.

Perché Capo Verde?

La scelta di Capo Verde è stata dettata dal caso. Un sabato pomeriggio Lorenzo, tornato dal lavoro, accese il televisore e vide un documentario che parlava di Capo Verde, in particolare di un ospedale in costruzione che aveva bisogno di tecnici volontari. Nel frattempo, era arrivato loro un invito a partecipare ad una riunione ad Alba. In quel periodo, Anna e Lorenzo cercavano in tutti i modi un’evasione, cercavano di fuggire dai ricordi. Sembrava che più lontano si andasse, meno il dolore venisse percepito, anche se si sa che il dolore rimane sempre lì. Arrivarono quindi ad Alba, ad una riunione di viaggi. Lorenzo, interessato a Capo Verde, chiese qualche informazione in più. Il signore che gli stava parlando ad un certo punto gli domandò che lavoro facesse e, una volta scoperto il mestiere di Lorenzo, gli disse: “Vuoi partire domani mattina?” e così Lorenzo capì di star parlando con il responsabile dell’ospedale di Fogo in persona. Lorenzo accettò subito l’offerta e, dopo circa venti giorni, il tempo di fare i passaporti, partirono per questa nuova avventura.

Pian piano iniziarono i lavori dell’asilo, grazie anche all’aiuto del personale dell’ospedale in cui stavano lavorando e della gente locale. Il progetto è stato accolto magnificamente dai locali, soprattutto dagli anziani, felicissimi di vedere i loro nipoti crescere in un ambiente così bello e pieno di gioia come quello del Jardim Denise.

La lingua

A Capo Verde si parlano il portoghese e il creolo capoverdiano. In generale, le persone locali preferiscono utilizzare il creolo, anche in situazioni formali. Per quanto riguarda il volontariato, non è necessario conoscere questa lingua, come testimoniano i due volontari: Emanuele e Lorenzo. Una volta arrivati sull’isola, si imparano le parole dai bambini oppure delle frasi quali “non farlo”, “stai attento” e “vieni qua”. Con i bambini ci si può benissimo far capire con i gesti. Non è quindi un requisito specifico sapere il portoghese per andare là, ma se si conosce la lingua è più semplice instaurare un dialogo con la gente locale.

Qual è la particolarità di questo progetto?

Secondo l’esperienza dei volontari, la particolarità di questo progetto sta nella sua piccola dimensione. È come essere in una grande famiglia: si discute, si parla e si chiacchiera. Al Jardim Denise non si è solo un numero, si lascia una traccia di sé. Due sue caratteristiche sono quindi la familiarità e la condivisione: alla sera ci si ritrova a tavola insieme, ci si racconta le avventure e le emozioni provate durante il giorno. Chiunque scelga di andare al Jardim Denise, lascia qualcosa di sé: dal disegno che rimane sulle pareti dell’asilo alle esperienze con i bambini. I volontari ricevono e, allo stesso tempo, lasciano molto. Il Jardim Denise può essere dunque definito come “una casa piena di ricordi di tutte le persone che sono passate”. Ci sono stati gruppi di ragazzi volontari che non si conoscevano a Fogo e, quando sono tornati in Italia, a distanza di tempo, si sono sposati e si ritrovano ancora per occasioni come matrimoni o battesimi. Questo dimostra che, oltre
all’esperienza arricchente del volontariato, si instaurano delle bellissime amicizie. Un’altra particolarità del Jardim Denise è infatti la profondità delle relazioni che si creano. C’è quindi un fortissimo senso di comunità, di amicizia e di rispetto.

Che tipo di volontariato offre il Jardim Denise?

Il volontariato, come il progetto in generale, è fatto di piccole cose. Ogni volontario è libero di gestire la propria giornata: c’è chi dipinge, chi aiuta i bambini, chi fa la spesa. Con i bambini si gioca e si fanno attività, come la danza e il canto. Tutto si basa molto sull’improvvisazione, è il volontario che deve mettersi in gioco, è molto semplice far felici i bambini, l’importante è dar loro attenzione e amore. Normalmente, a parte quest’anno a causa del COVID-19, i bambini vengono anche portati in gita con i volontari e si allestiscono dei teatrini. I bambini capoverdiani sono inoltre molto generosi, per esempio quando viene data loro la merenda, ne offrono sempre un pezzo agli altri.

Riguardo, invece, alla spesa, si può andare al mercato e quella è anche un’occasione per fermarsi a parlare con la gente del posto e mangiare un piatto tipico. I volontari che scelgono il Jardim Denise hanno inoltre “vitto e alloggio”. C’è un locale su due piani annesso all’asilo: al primo piano si trova la cucina e al secondo piano, la camera da letto. La camera consiste in uno stanzone con dei letti al suo interno e lì dormono i volontari.

Per concludere, l’esperienza di volontariato al Jardim Denise è bella perché è vissuta con tranquillità e con libertà. Ognuno è libero di gestire la propria giornata.

Curiosità

Il primo anno che hanno aperto l’asilo, c’era una bellissima bambina bionda che si chiamava Denise, quando era piccola, Anna le diceva sempre: “Se non avessi mamma e papà qua, ti porterei in Italia”. All’età di quindici anni, la bambina non dimenticò quelle parole e disse ad Anna: “Ti ricordi quello che mi avevi detto da piccola all’asilo? Che mi avresti portata in Italia”. Questo esempio mostra come i bambini non si dimenticano né le persone né le esperienze vissute. Alla fine, questa bimba partì per gli Stati Uniti con il padre.

Al compleanno, la prima fetta di torta viene data alla persona che uno reputa più importante. Un bambino di nome Sandro la diede a Lorenzo.

Qual è il ruolo della donna a Capo Verde?

La società capoverdiana è una società matriarcale. La donna ha un ruolo centrale, è il fulcro della famiglia. È la donna che sceglie l’uomo ed è la donna che lavora. Se si apre il portafoglio di un uomo di cinquant’anni, si troverà la foto della mamma, perché spesso i papà sono assenti. Questo è semplicemente il loro tipo di cultura.

Noi abbiamo dato tanto e abbiamo ricevuto il doppio, quando dai, ricevi”. Ricevere in senso umano, non materiale. Quando si ha un grande dolore, la visione del mondo cambia. I bambini di Capo Verde hanno dato ad Anna e Lorenzo la forza di continuare: nei momenti bui la possibilità di ripensare ai bei momenti trascorsi all’asilo o alle risate dei bambini era un incentivo per alzarsi al mattino, andare a lavorare e vedere il mondo con occhi diversi.

Un ringraziamento speciale ad Anna e Lorenzo Maccagno e ai due volontari, Emanuele e Lorenzo, per l’intervista.

Il centro della storia

“Il vero segreto è quello di non sentirsi al centro di ogni storia. Ogni tanto, questa non ci appartiene nemmeno, non ne abbiamo capito la trama, il finale, l’inizio, ma ce ne vogliamo comunque impossessare. Perché ci hanno insegnato che noi siamo il centro di tutto e che ci meritiamo solo il meglio da questa vita. Alla fine, sai cosa importa realmente? Creare la tua storia, senza impossessarsi di quella degli altri. Non essere al centro di ogni situazione, ma essere al centro della tua storia. Guarda, io non so dirti cosa accadrà dopo, non so dirti se voleremo in cielo, se diventeremo mangime, se saremo angeli o diavoli. Non so dirti se effettivamente fossimo cenere e che cenere dovremo tornare ad essere. Non lo so. So soltanto che possiamo essere protagonisti della nostra storia, ora. Non solo: possiamo essere i narratori della nostra storia. Ci hanno insegnato così tanto a confrontarci, misurarci, equipararci agli altri, che stiamo creando tanti brevi copia-incolla di storie già sentite, e quindi di vite già vissute. E allora cambia la tua storia, fai qualcosa per te, senza doverlo dire a nessuno. Riscrivi delle pagine che avevano già il timbro di qualcun altro o di qualcos’altro. Smettila di pensare che la storia di un altro sia più interessante della tua. Smettila di credere nella quantità ma punta solo alla qualità, perché ricorda, ricorda questo: i libri che rimangono non sono necessariamente quelli che hanno venduto di più, ma sono quelli che sono entrati nel cuore dei lettori o nella loro mente per la qualità della scrittura, della trama, del finale. Ecco, io non so dirti molto di più. Quello che ho imparato è che il tempo è un bene prezioso che non ci meritiamo, perché non sappiamo come gestirlo. Crediamo che riempirlo sia l’unico modo giusto per maneggiarlo, quando, in realtà, il tempo dovrebbe essere solo un mezzo per un altro obiettivo: il tempo di studiare per arrivare a un traguardo; il tempo della fatica per arrivare alla meta; il tempo di innamorarsi per vivere poi l’amore; il tempo di capire per poter agire; il tempo di maturare per poter sbocciare. Datti tempo, prenditelo questo tempo e non perderlo. Siamo abituati a quella frase che dice “Non bisogna perdere tempo” io la sostituirei con quella che dice “Bisogna prendersi tempo”. Il tempo come mezzo per prendersi cura. Cura dell’amicizia, di una pianta, di uno studio, dei propri bambini, di un insegnamento, di una serata, di un paesaggio. Prendersi del tempo, come mezzo per non perderlo mai più, per non perdere più di vista la nostra storia, rendendola il best-seller che non oggi, non domani, ma ancora tra cento e mille anni sarà letto in continuazione. Non riempire le pagine di approvazione momentanea da parte del lettore, ma riempirle di bellezza in potenziale, che poi, il lettore che vorrai tu saprà comprendere e amare. Non serve arrivare a tutti basta arrivare a qualcuno.”

Avrebbe voluto dirgli tutte queste cose. Lui, il fratello maggiore. Sposato, con figli, con una casa con un mutuo da pagare, con le difficoltà del lavoro, con la malattia della moglie, con i debiti e le preoccupazioni, glielo avrebbe voluto urlare questo monologo. Sarebbe andato davanti a lui, e con fare gentile ma allo stesso tempo austero e rispettabile, gli avrebbe cambiato la vita per sempre. Poi, però, aveva alzato lo sguardo. Suo fratello Riccardo, di ben quindici anni in meno di lui, rimaneva con gli occhi semichiusi, appoggiato al tavolo. Triste, insoddisfatto, gli aveva appena detto che la sua vita non aveva senso. E allora lui voleva proprio farglielo questo discorsetto, voleva proprio dirglielo che non avesse ancora capito nulla, e che anzi era un bell’ingrato a pensarla così. Ma poi si fermò. Ripensò all’inizio del suo monologo tanto ragionato, e comprese che fosse lui stesso a non aver capito nulla. Perché lui, nel profondo del cuore, sapeva di voler essere al centro della storia anche questa volta. Sapeva che stava per diventare il protagonista di una storia che non era sua. Ammaliato dall’idea della figura del fratello maggiore, premuroso e maturo, che va in soccorso del fratello, gli avrebbe fatto un gran bel monologo, ma che in realtà non lo avrebbe in alcun modo aiutato. Riccardo si sarebbe solo sentito ancora una volta da meno. E allora quel bel monologo iniziale non lo fece, non lo fece per nulla. Dalla sua bocca uscì soltanto: “Non serve arrivare a tutti basta arrivare a qualcuno. A me tu arrivi sempre, quindi se hai voglia di parlarne io sono qui. Guardami, parlami.”

Riccardo gli raccontò tanto, gli mostrò i suoi pensieri, i suoi ragionamenti. E suo fratello capì che il suo monologo iniziale fosse ben fatto, ma che non era nulla in confronto al monologo che gli stava facendo suo fratello. Quel giorno capì, lui per primo, che essere al centro della propria storia, senza impossessarsi di quella degli altri, vuol dire, ogni tanto, saper fare un passo indietro.

The heart of a story

The real secret is not to feel at the heart of every story. Sometimes, this one does not even belong to us, we did not understand the plot, the ending or the beginning. Nevertheless, we still want to take over it. This is because we have been taught that we are the centre of everything and that we deserve only the best from this life. In the end, do you know what really matters? Creating you own story without taking over the others’ life. You do not have to be at the heart of every situation, but at the heart of your own story. Listen, I cannot tell you what will happen next, I cannot tell you whether we go to heaven, whether we become animal feed, angels, or devils. I cannot tell you whether we become ashes. I do not know. All I know is that we can be the main characters of our own story now. Even more: we can be the narrators of our own story. We have been taught so much to compare and measure ourselves to the other people, that we are creating so many short copy-paste of stories we have already heard, and therefore lives we have already lived. Then, change your story, do something for you without having to tell anyone. Rewrite the pages which have already been written by others. Stop thinking that someone else’s story is more interesting than your own. Stop believing in quantity, be focused on quality, because I want to remind you of this: the books we remember are not necessarily the ones that have sold the most, but the ones which have entered the readers’ hearts or minds because of the quality of the writing, the plot and the ending.

I cannot tell you much more. What I have learnt is that time is a precious gift that we do not deserve, because we do not know how to manage it. We believe that filling it up is the only right way to handle it. Actually, time should only be a means to reach another purpose: time to study in order to reach a goal; time to struggle in order to reach an objective; time to fall in love in order to then experience love; time to understand in order to act; time to mature in order to blossom. Give yourself time, take this time which only belongs to you and do not lose it. We are used to that quote which says Do not waste your time. I would replace it with another one saying Take your time. Time as a therapy and as a means of caring. Taking care of friendships, of a plant, of a study, of one’s children, of a teaching, of an evening, of a landscape.

Take your time, do not lose sight of it again, do not lose sight of your story again. On the contrary, make it the best-seller that will be read over and over again a hundred and a thousand years from now. Do not fill the pages with momentary approval from the reader, but fill them with beauty, which the reader will then understand, and with love. There is no need to reach everyone, just reach someone.

His older brother would have loved to tell him all these things. He was married, with children, with a mortgage to pay, with all the obstacles of his job, with his wife’s illness, with debts and worries. This is why he would have shouted this monologue at him. He would have stood in front of him, with a gentle but at the same time austere and respectable manner, he would have changed his life forever. Then, he had looked up. His brother Riccardo, fifteen years younger than him, stood with half-closed eyes, leaning against the table. Sad, dissatisfied, he had just told him that his life had no meaning. As a consequence, he really wanted to give him this little speech, he really wanted to tell him that he had not understood anything yet, and that it was not good to think so. At that moment, he stopped. He thought back to the beginning of his well-reasoned monologue and realized that it was him who had understood nothing. Deep in his heart, he knew that he wanted to be at the centre this time too. He knew he was about to become the protagonist of a story that was not his own. Fascinated by the idea of being the older, caring and mature figure coming to his brother’s rescue, he would have given him a great monologue which could not help Riccardo in the end. He would have felt inferior once again. Therefore, he put aside that initial monologue. All that came out of his mouth was: “You do not need to get to everyone, you just need to get to someone. You always get to me, so if you want to talk about it, I am here. Look at me, talk to me”.

Riccardo spoke with him, showed him his thoughts and his reasoning. His brother understood that his initial monologue was efficient, but that it was nothing compared to the monologue his brother was giving him. That day he realized that to be at the centre of one’s own story, without taking over the one of others means, every now and then, knowing how to take a step backwards.

Le centre de l’histoire

« Le vrai secret est de ne pas se sentir au centre de chaque histoire. Parfois, elle ne nous appartient même pas, nous ne comprenons pas son intrigue, sa fin, son début, mais nous voulons quand même en être les protagonistes. En effet, on nous a appris que nous sommes le centre de tout et que nous ne méritons que le meilleur de cette vie. En fin de compte, savez-vous ce qui compte vraiment ? Créer sa propre histoire, sans reprendre celle des autres. Ne pas être au centre de chaque situation, mais être au centre de sa propre histoire. Je ne peux pas te dire ce qui va se passer après, je ne peux pas te dire si nous allons voler vers le ciel, si nous allons devenir du fourrage, si nous allons être des anges ou des démons. Je ne peux pas te dire si nous serons réellement des cendres et quelles cendres nous deviendrons. Je ne sais pas. Je sais seulement que nous pouvons être les protagonistes de notre propre histoire maintenant. Et ce n’est pas tout : nous pouvons être les narrateurs de notre propre histoire. On nous a tellement appris à nous comparer, à nous mesurer avec les autres, qu’à la fin nous avons créé de petits copier-coller d’histoires que nous avons déjà entendues, et donc de vies que nous avons déjà vécues. Alors changez votre histoire, faites quelque chose pour vous, sans avoir à le dire à personne. Réécrire des pages qui ont déjà été marquées par quelqu’un d’autre ou quelque chose d’autre. Arrêtez de penser que l’histoire de quelqu’un d’autre est plus intéressante que la vôtre. Cessez de croire à la quantité, mais ne visez que la qualité, car n’oubliez pas ceci : les livres qui restent ne sont pas nécessairement ceux qui se sont le plus vendus, mais ce sont ceux qui sont entrés dans le cœur ou l’esprit des lecteurs en raison de la qualité de l’écriture, de l’intrigue, de la fin. Ici, je ne peux pas vous en dire beaucoup plus. Ce que j’ai appris, c’est que le temps est un bien précieux que nous ne méritons pas, car nous ne savons pas le gérer. Nous pensons que le remplir est la seule bonne façon de le gérer, alors qu’en réalité, le temps ne devrait être qu’un moyen pour atteindre une autre fin : le temps d’étudier pour arriver à un but ; le temps de travailler pour arriver à ce but ; le temps de tomber amoureux pour ensuite vivre l’amour ; le temps de comprendre pour agir ; le temps de mûrir pour s’épanouir. Donnez-vous du temps, prenez ce temps et ne le perdez pas. Nous sommes habitués à cette phrase qui dit “il ne faut pas perdre de temps”, je la remplacerais par “il faut prendre le temps”. Le temps comme moyen de prendre soin de soi. Prendre soin de l’amitié, d’une plante, d’une étude, de ses enfants, d’un enseignement, d’une soirée, d’un paysage. Prendre le temps comme un moyen de ne plus jamais le perdre de vue, de ne plus jamais perdre de vue notre histoire, d’en faire le best-seller qui, non pas aujourd’hui, non pas demain, mais encore dans cent et mille ans, sera lu et relu. Ne remplissez pas les pages avec l’approbation momentanée du lecteur, mais remplissez-les avec la beauté potentielle, que le lecteur comprendra et aimera ensuite. Il n’est pas nécessaire d’atteindre tout le monde, il suffit d’atteindre quelqu’un.”

Il aurait aimé lui dire toutes ces choses. Lui, le frère aîné. Marié, avec des enfants, avec une maison dont il faut payer l’hypothèque, avec les difficultés du travail, avec la maladie de sa femme, avec les dettes et les soucis, il aurait voulu lui crier ce monologue. Il l’aurait précédé et, d’une manière douce mais en même temps austère et respectable, il aurait changé sa vie pour toujours. Mais ensuite, il a levé les yeux. Son frère Richard, de quinze ans son cadet, se tenait debout, les yeux mi-clos, appuyé contre la table. Triste, insatisfait, il venait de lui dire que sa vie n’avait pas de sens. Et donc il voulait vraiment lui faire ce petit discours, il voulait vraiment lui dire qu’il n’avait encore rien compris, et qu’il était en fait bien ingrat de le penser. Mais ensuite, il s’est arrêté. Il repense au début de son monologue raisonné et se rend compte que c’est lui-même qui n’a rien compris. Parce que lui, au fond de son cœur, savait qu’il voulait être au centre de l’histoire cette fois-ci aussi. Il savait qu’il était sur le point de devenir le protagoniste d’une histoire qui n’était pas la sienne. Fasciné par l’idée de la figure du frère plus âgé, attentionné et mature venant au secours de son frère, il lui aurait fait un grand monologue, mais qui en réalité ne l’aurait aidé en rien. Richard se serait seulement senti une fois de plus inférieur. Donc ce joli monologue initial, il ne l’a pas fait, il ne l’a pas fait du tout. Tout ce qui est sorti de sa bouche, c’est : “Vous n’avez pas besoin d’atteindre tout le monde, vous avez juste besoin d’atteindre quelqu’un. Tu m’atteins toujours, alors si tu veux en parler, je suis là. Regarde-moi, parle-moi.”

Riccardo lui a dit beaucoup de choses, lui a montré ses pensées, ses raisonnements. Et son frère a compris que son monologue initial était bien fait, mais qu’il n’était rien comparé au monologue que son frère lui faisait. Ce jour-là, il a compris, lui, qu’être au centre de sa propre histoire, sans s’approprier celle des autres, c’est, de temps en temps, savoir prendre du recul.

O centro da história

“O verdadeiro segredo é não se sentir no centro de cada história. Por vezes, nem sequer nos pertence, não compreendemos o enredo, o fim, o início, mas ainda assim queremos estar no centro do mesmo. Porque nos foi ensinado que somos o centro de tudo e que só merecemos o melhor desta vida. No final, sabe o que realmente importa? Criar a sua própria história, sem se apoderar da dos outros. Não estar no centro de todas as situações, mas estar no centro da sua própria história. Olha, não te posso dizer o que vai acontecer a seguir, não te posso dizer se vamos voar para o céu, se nós vamos tornar em forragem, se vamos ser anjos ou demónios. Não posso dizer-vos se éramos realmente cinzas e que cinzas nós deveríamos tornar novamente. Não sei. Só sei que agora podemos ser os protagonistas da nossa própria história. Não só isso: podemos ser os narradores da nossa própria história. Foi-nos ensinado tanto a compararmo-nos, a medirmo-nos, a equipararmo-nos aos outros, que estamos a criar tantas réplicas de histórias que já ouvimos, e portanto de vidas já vividas. Portanto, muda a tua história, faz algo por ti, sem teres de contar a ninguém. Escreva novamente as páginas que já tinham o carimbo de outra pessoa ou outra coisa qualquer. Para de pensar que a história de outra pessoa é mais interessante do que a tua.

Para de pensar na quantidade, mas visa apenas a qualidade, porque lembra-te disto: os livros que ficam não são necessariamente os que mais venderam, mas são os que entraram no coração dos leitores ou nas suas mentes graças à qualidade da escrita, da trama, do final. Aqui, não te posso dizer muito mais do que isso. O que aprendi é que o tempo é um bem precioso que não merecemos, porque não sabemos como o gerir. Acreditamos que preenchê-lo é a única forma correcta de lidar com ele, quando, na realidade, o tempo deve ser apenas um meio para outro fim: tempo para estudar a fim de chegar a um objectivo; tempo para se esforçar a fim de chegar ao objectivo; tempo para se apaixonar a fim de depois viver o amor; tempo para compreender a fim de agir; tempo para amadurecer a fim de florescer. Dá-te tempo, toma este tempo e não o percas. Estamos habituados a essa frase que diz “não se deve perder tempo”, substituí-la-ia por aquela que diz ” é preciso tirar tempo”. O tempo como meio de cuidado. Cuidar da amizade, de uma planta, de um estudo, dos próprios filhos, de um ensino, de uma noite, de uma paisagem. Levar tempo como meio de nunca mais perder de vista, de nunca mais perder de vista a nossa história, tornando-a no best-seller que não hoje, não amanhã, mas ainda daqui a cento e mil anos será relida constantemente. Não encher as páginas com a aprovação momentânea do leitor, mas enchê-las com a beleza potencial, que o leitor então compreenderá e amará. Não há necessidade de chegar a todos, basta chegar a alguém”.

Ele gostaria de lhe ter dito todas estas coisas. Ele, o irmão mais velho. Casado, com filhos, com uma casa com uma hipoteca para pagar, com as dificuldades do trabalho, com a enfermidade da sua mulher, com dívidas e preocupações, ele teria querido gritar-lhe este monólogo. Teria ido antes dele, e com uma forma suave mas ao mesmo tempo austera e respeitável, teria mudado a sua vida para sempre. Mas depois tinha olhado para cima. O seu irmão Riccardo, quinze anos mais novo do que ele, estava de pé com os olhos meio fechados, encostado à mesa. Triste, insatisfeito, tinha acabado de lhe dizer que a sua vida não tinha sentido. E assim ele queria realmente fazer-lhe este pequeno discurso, queria realmente dizer-lhe que ainda não tinha percebido nada, e que na realidade era bastante ingrato por pensar assim. Mas depois ele parou.

Pensou no início do seu bem argumentado monólogo, e percebeu que era ele próprio que nada tinha compreendido. Porque ele, no fundo do seu coração, sabia que também desta vez queria estar no centro da história. Ele sabia que estava prestes a tornar-se o protagonista de uma história que não era sua. Fascinado pela ideia da figura do irmão mais velho, carinhoso e maduro que vinha em socorro do seu irmão, ele ter-lhe-ia dado um grande monólogo, mas que na realidade não o teria ajudado de forma alguma. Riccardo só se teria sentido uma vez mais inferior. Então, aquele belo monólogo inicial que ele não fez, ele não o fez de todo. Tudo o que lhe saiu da boca foi: ‘Não precisas de chegar ao coração de todos, só precisas de chegar ao coração de alguém’. Tu chegas sempre ao meu, por isso se quiseres falar sobre isso, eu estou aqui. Olha para mim, fala comigo”.

Riccardo contou-lhe muito, mostrou-lhe os seus pensamentos, as suas argumentações. E o seu irmão compreendeu que o seu monólogo inicial estava bem feito, mas que não era nada em comparação com o monólogo que o seu irmão lhe estava a dar. Naquele dia ele percebeu que estar no centro da sua própria história, sem se apropriar da dos outros, significa, de vez em quando, saber dar um passo atrás.

Im Mittelpunkt der Geschichte

Das eigentliche Geheimnis besteht darin, dass wir uns nicht in jede Geschichte hineinversetzen können. Manchmal gehört diese Geschichte nicht einmal uns, wir haben die Handlung, das Ende oder den Anfang nicht verstanden. Trotzdem wollen wir sie in die Hand nehmen. Das liegt daran, dass man uns beigebracht hat, dass wir der Mittelpunkt von allem sind und dass wir nur das Beste in diesem Leben verdienen. Weißt du überhaupt, worauf es am Ende wirklich ankommt? Die eigene Geschichte zu gestalten, ohne das Leben der anderen zu übernehmen. Du musst nicht im Mittelpunkt jeder Situation stehen, sondern nur im Mittelpunkt deiner eigenen Geschichte. Hör zu, ich kann dir nicht sagen, was als nächstes passiert, ich kann dir nicht sagen, ob wir in den Himmel kommen, ob wir zu Engeln, Teufeln oder Asche werden. Ich weiß es nicht. Ich weiß nur, dass wir jetzt die Hauptfiguren unserer eigenen Geschichte sein können. Mehr noch: Wir können die Erzähler unserer eigenen Geschichte sein. Man hat uns so sehr gelehrt, uns mit anderen Menschen zu vergleichen und zu messen, dass wir so viele kurze Kopien von Geschichten erschaffen, die wir bereits gehört haben, und damit auch Leben, die wir bereits gelebt haben. Ändere doch einfach deine Geschichte, tu etwas für dich selbst, ohne es jemandem erzählen zu müssen. Schreib die Seiten neu, die bereits von anderen geschrieben wurden. Hör auf zu denken, dass die Geschichte eines anderen interessanter ist als deine eigene. Hör auf, an die Quantität zu glauben, konzentrier dich auf die Qualität und denk daran: Die Bücher, an die wir uns schlussendlich erinnern, sind nicht unbedingt die, die sich am meisten verkauft haben, sondern die, die aufgrund der Qualität des Schreibens, der Handlung und des Endes in die Herzen und Köpfe der Leser gelangt sind.

Viel mehr kann ich dir nicht sagen. Was ich gelernt habe, ist, dass Zeit ein kostbares Geschenk ist, das wir nicht verdienen, weil wir nicht wissen, wie wir damit umgehen sollen. Wir glauben, dass der einzig richtige Weg mit ihr umzugehen ist, sie zu füllen. In Wirklichkeit sollte die Zeit nur ein Mittel sein, um einen anderen Zweck zu erfüllen: Zeit zum Lernen, um ein Ziel zu erreichen; Zeit zum Kämpfen, um einen Plan umzusetzen; Zeit, um sich zu verlieben, um dann Liebe zu erleben; Zeit zum Verstehen, um zu handeln; Zeit zum Reifen, um zu erblühen. Gib dir Zeit, nimm dir diese Zeit, die nur dir gehört, und verlier sie nicht. Wir sind an das Zitat gewöhnt, in dem es heißt: Vergeude nicht deine Zeit. Ich würde es durch ein anderes ersetzen: Nimm dir Zeit. Zeit als Therapie und als Mittel der Fürsorge. Sich um Freundschaften kümmern, um eine Pflanze, um ein Studium, um die eigenen Kinder, um eine Lehre, um einen Abend, um eine Landschaft.

Nimm dir Zeit, verlier sie nicht wieder aus den Augen, verlier deine Geschichte nicht wieder aus den Augen. Im Gegenteil, mach sie zu einem Bestseller, der auch in hunderten und tausenden Jahren noch gelesen werden wird. Füll die Seiten nicht mit der momentanen Zustimmung des Lesers, sondern füll sie mit Schönheit und Liebe, die der Leser dann verstehen wird. Man muss nicht jeden erreichen, man muss nur jemanden erreichen.

Sein älterer Bruder hätte ihm all diese Dinge gerne erzählt. Er war verheiratet, mit Kindern, hatte einen Kredit aufgenommen, um das Haus zu bezahlen, mit all den Hindernissen seiner Arbeit, mit der Krankheit seiner Frau, mit Schulden und Sorgen. Deshalb hätte er ihm diesen Monolog gerne entgegengeschrien. Er hätte vor ihm gestanden, mit einer sanften, aber gleichzeitig strengen und respektvollen Art, er hätte sein Leben für immer verändert.

Dann hatte er aufgeschaut. Sein fünfzehn Jahre jüngerer Bruder Riccardo stand mit halbgeschlossenen Augen an den Tisch gelehnt. Traurig, unzufrieden, hatte er ihm gerade gesagt, dass sein Leben keinen Sinn habe. Deshalb wollte er ihm eigentlich diese kleine Rede halten, er wollte ihm sagen, dass er noch nichts verstanden hatte und dass es nicht gut war, so zu denken. In diesem Moment hielt er inne. Er erinnerte sich an den Anfang seines gut begründeten Monologs und erkannte, dass er es war, der nichts verstanden hatte. Tief in seinem Herzen wusste er, dass er auch dieses Mal im Mittelpunkt stehen wollte. Er wusste, dass er im Begriff war, zum Protagonisten einer Geschichte zu werden, die nicht seine eigene war. Fasziniert von der Vorstellung, die ältere, fürsorgliche und reife Figur zu sein, die seinem Bruder zu Hilfe kommt, hätte er ihm einen großen Monolog gehalten, der Riccardo ohnehin nicht helfen konnte. Er hätte sich wieder einmal minderwertig gefühlt. Deshalb schob er diesen anfänglichen Monolog beiseite. Alles, was aus seinem Mund kam, war: “Du musst nicht an jeden herankommen, du musst nur an jemanden herankommen. Du kommst immer zu mir, also wenn du darüber reden willst, bin ich da. Sieh mich an, sprich mit mir.”

Riccardo sprach mit ihm, zeigte ihm seine Gedanken und seine Überlegungen. Sein Bruder verstand, dass sein anfänglicher Monolog zwar effizient war, aber nichts im Vergleich zu dem Monolog, den sein Bruder ihm hielt. An diesem Tag wurde ihm klar, dass man, wenn man im Mittelpunkt der eigenen Geschichte steht, ohne die der anderen zu übernehmen, hin und wieder einen Schritt zurückgehen kann.

El centro de la historia

‘’El verdadero secreto es el de no sentirse el centro de cada historia. A veces esta historia ni
siquiera nos pertenece, no hemos entendido la trama, el final, el comienzo, pero aún así
queremos apoderarnos de ella. Nos enseñaron que somos el centro de cualquier cosa y que
solo merecemos lo mejor de la vida. Al final, ¿sabes qué es lo que realmente importa?
Crear tu propia historia, sin apropiarse de la de los demás. No estar en el centro de cada
situación, sino estar en el centro de tu historia. Mira, yo no sé decirte qué pasará después,
no sé decirte si volaremos al cielo, si nos convertiremos en alimento, si seremos ángeles o
diablos. No puedo decirte si en realidad éramos cenizas y que cenizas tendríamos que
volver a ser. No lo sé. Todo lo que sé es que ahora podemos ser los protagonistas de
nuestra historia. No solo eso: podemos ser los narradores de nuestra vida. Nos han
enseñado siempre a confrontarnos, a medirnos, a equipararnos a los demás, que al final
estamos creando tantas copias de historias ya conocidas y, por lo tanto, de vidas ya vividas.
Entonces cambia tu historia, haz algo por ti, sin tener que decírselo a nadie. Reescribe
páginas que ya tenían el sello de otra persona o de otra situación. Deja de pensar que la
historia de otro es más interesante que la tuya. Lo importante no es la cantidad, es la
calidad, porque recuerda, recuerda esto: los libros que quedan no son necesariamente los
que más se han vendido , sino los que han entrado en el corazón de los lectores o en su
mente por la calidad de la escritura, de la trama, del final.
No sé decirte mucho más. Lo que he aprendido es que el tiempo es un bien preciado que no
nos merecemos, porque no sabemos cómo manejarlo. Creemos que llenarlo es la única
manera correcta de usarlo, cuando, en realidad, el tiempo debería ser solo un medio para
lograr otro objetivo: el tiempo de estudiar para llegar a una meta; el tiempo de enamorarse
para luego vivir el amor; el tiempo de comprender para poder actuar; el tiempo de madurar
para poder florecer. Tómate tu tiempo y no lo pierdas. Estamos acostumbrados a esa frase
que dice “No hay que perder el tiempo”, yo la sustituiría por la que dice “Hay que tomarse
un tiempo”. El tiempo como medio para cuidar. Cuidar de la amistad, de una planta, de los
estudios, de los hijos, de una enseñanza, de una tarde, de un paisaje. Tomarse un tiempo,
como medio para no perderlo nunca más, para no perder de vista nuestra historia,
convirtiéndola en el best-seller que igual no hoy, ni mañana, pero dentro de cien mil años
será leído continuamente. No llenes las páginas de aprobación momentánea por parte del
lector, más bien llénalas de belleza, porque luego el lector que tú quieras sabrá comprender
y amar. No importa llegar al corazón de todos, sino saber llegar al corazón de alguien.”


Quería decirle todas estas cosas. Él, el hermano mayor. Casado, con hijos, con una casa,
con una hipoteca que pagar, con las dificultades del trabajo, con la enfermedad de la mujer,
con las deudas y las preocupaciones, le habría querido gritar este monólogo. Quería
ponerse cara a cara con su hermano y, siendo amable pero al mismo tiempo serio y
respetable, iba a cambiar su vida para siempre. Pero entonces levantó la mirada. Su
hermano Riccardo, quince años más joven que él, estaba con los ojos medio cerrados,
apoyado en la mesa. Triste, insatisfecho, acababa de decirle que su vida no tenía sentido.
Entonces él quería tener esta conversación con él, quería decirle que aún no había
entendido nada, y que era un desagradecido por pensar eso. Pero luego se calló. Volvió a
pensar en el comienzo de su monólogo tan sensato, y comprendió que era él mismo quien
no había entendido nada. Porque él, en lo profundo de su corazón, sabía que quería estar
en el centro una vez más. Sabía que iba a ser el protagonista de una historia que no le
pertenecía. Atraído por la idea de la figura del hermano mayor, cariñoso y maduro, que va al
rescate de su hermano, le habría hecho un gran monólogo, pero que en realidad no le
habría ayudado de ninguna manera. Riccardo solamente se habría sentido inutil otra vez.
Entonces, prefirió no hacer ese bonito monólogo. De su boca solamente salieron estas
palabras: ‘‘No importa llegar al corazón de todos, sino saber llegar al corazón de alguien. Si
te apetece hablar me tienes aquí. Mírame, háblame.’’


Riccardo le contó mucho, le mostró sus pensamientos, sus razonamientos y su hermano se
dio cuenta de que su monólogo inicial estaba bien hecho, pero que no era nada comparado
con el monólogo que su hermano le estaba haciendo. Aquel día comprendió, él primero, que
estar en el centro de la propia historia, sin apoderarse de la de los demás, significa, de vez
en cuando, saber dar un paso atrás.

Mamma Africa

La mamma è seduta su una sedia traballante. Le mani sono incrociate nel grembo. Il viso è stanco, le rughe intorno alla bocca sono leggermente pronunciate e scendono lungo il mento come schiacciate dalla gravità. Il peso è qualcosa che si sente. Il peso di una schiena abituata ad inarcarsi troppe volte e troppo spesso: per il lavoro, per prendere in braccio un bambino. La sua benda è colorata: una striscia di cerchi e una striscia di triangoli; una striscia di cerchi e una striscia di triangoli. Da quell’arcobaleno di stoffa sbucano fuori delle treccine nere, che si posano, delicatamente, sulla schiena. È arrivata a piedi a scuola, l’hanno convocata per parlare. È seria, forse preoccupata. Ogni volta che la porta si apre, guarda dritto negli occhi la persona che sta per entrare nella stanza. Non è intimorita, le mamme qui non conoscono il timore. È fiera. Per venire a scuola si è messa la gonna blu e la maglia a maniche corte rossa. Si è dispiaciuta di non poter mettere le scarpe blu. Ha messo quelle nere. Stonano, ma ha solo quelle. Le dita si sfregano fra di loro, i pollici cominciano a rincorrersi. Le labbra carnose si inumidiscono al passaggio della lingua. Fa caldo, fa un caldo incredibile qui a Nairobi. È soffocante: si impregna nei vestiti, tra i capelli. Ma lei è leggera. Seria ma leggera. Ed ecco che arriva la sua bambina. In realtà ha tredici anni. Qui avere tredici anni significa essere donna. Non per lei. Per lei, rimane sempre la sua bambina. Arriva sorridente. È felice. La mamma non si scompone: non l’abbraccia, non le dice nulla. Arriva il preside. L’esame è stato passato a pieni voti. La sua è una ragazza dalle competenze e dalle capacità fuori dalla norma.

Quanto fa male una gioia che viene ferita? Quanto è terribile un lieto fine che non ha nessuna conseguenza? Maledetto il giorno in cui si è deciso che l’arcobaleno non potesse uscire fuori senza la pioggia. Maledetto quel giorno. E allora la benda colorata scuote la testa; un sorriso si fa spazio tra le rughe e la fronte si distende. È felice, ma dalla penombra degli occhi si vede che si tratta di una felicità amara. Il retrogusto appesantisce: è un altro peso da portare su quella schiena curva. Si alza, ringrazia, ed esce insieme alla figlia. Saluta tutti, composta. La sua integrità e il suo orgoglio le permettono di non passare inosservata. Tutti si voltano per guardarla, mentre lei pensa che non avrebbe proprio dovuto mettere quelle scarpe nere. Ma purtroppo erano le sole che aveva. Escono dalla scuola. C’è solo il silenzio. Le lacrime arrivano agli occhi della mamma, che non si scompone. La figlia è felice ma pacata. Tutta la mamma. Non c’è bisogno di parlare: si sa perfettamente che questo bel voto non significa nulla per il futuro. Si sa perfettamente che i soldi, per continuare gli studi, non ci sono. Non c’è bisogno di aggiungere nulla. E quindi si va avanti, si torna a casa sotto il sole africano che appesantisce, fino a quando non arrivano delle amiche della figlia vicino a lei. Si congratulano: è stata la migliore a passare l’esame finale. La migliore come sempre.

E la mamma indietreggia per guardare la scena. I suoi occhi ora albeggiano, mentre la sua testa, ormai china, tramonta sotto quell’immensa collina: è la sua gobba, dalla quale, un peso, per un attimo, è svanito.

Mama Africa

The mother is sitting on a wobbly chair. Her hands are crossed in her lap. Her face is tired, the wrinkles around her mouth are slightly pronounced and run down the chin as if crushed by gravity. The weight is something you can feel. The weight of a back used to arching too many times and too often: for work or to hold a child. Her dressing is coloured: a strip of circles and a strip of triangles; a strip of circles and a strip of triangles. Little black braids come out of the rainbow of cloth, which rest gently on her back. She walked to school and has been summoned to talk. She is serious, perhaps worried. Every time the door opens, she looks straight into the eyes of the person about to enter the room. She is not intimidated, mothers here do not know fear. She is proud. She wore a blue skirt and a red short-sleeved shirt to go to school. She was sorry she couldn’t wear blue shoes. She wore the black ones. They clash, but that is all she has. Her fingers rub against each other, her thumbs begin to chase each other. Her full lips moisten at the passage of her tongue. It is hot, incredibly hot here in Nairobi. It is stifling: it soaks into her clothes, into her hair. Nevertheless, she is cheerful. Serious but cheerful. And here comes her little girl. She is actually thirteen years old. Being thirteen here means being a woman. Not for her mother. For her, she is still a little girl. She arrives smiling. She is happy. Her mother doesn’t get upset: she doesn’t hug her, doesn’t say anything. The headmaster arrives. She passed her exam with the best mark. Her daughter has extraordinary skills and abilities. How much is hurtful when your joy hurts? How terrible is a happy ending that has no future? The day when it was decided that the rainbow could not come out without the rain was an ill-fated one. Curse that day. And so the coloured dressing shakes its head; a smile goes out among the wrinkles and the forehead relaxes. She is happy, but from the dimness of her eyes we can see that it is a bitter happiness. The aftertaste weighs her down: it is another burden to carry on that curved back. She gets up, says thank you, and leaves with her daughter. She greets everyone. Her integrity and pride allow her not to go unnoticed. Everyone turns to look at her, while she thinks that she should not have worn those black shoes at all. But unfortunately, they were the only ones she had. They leave the school. There is only silence. Tears well up in the eyes of the mother, who does not flinch. Her daughter is happy but calm. Like her mother. There is no need to talk: they know that this good mark means nothing for her future. They know perfectly well that there is no money to continue their studies. There is no need to add anything. Therefore, they go on, they go home under the African sun that weighs them down, until some of her daughter’s friends arrive next to her. They congratulate her: she was the best to pass the final exam. The best as always.

And the mother steps back to look at the scene. Her eyes are now dawning, while her head, bowed, sets beneath that immense hill: it is her hump, from which, for a moment, a weight has vanished.